Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.


La notte del 29 settembre del 1984, festa di San Michele, parte la retata antimafia del secolo. I boss vengono trascinati fuori dalle loro case e trasportati in carceri lontane dalla Sicilia. Il giudice Falcone ha quasi concluso quel lavoro cominciato con quel fascicolo su Rosario Spatola. Ha dimostrato a tutti che la mafia non è invincibile. Dopo Buscetta si pente anche Salvatore Contorno. Altri 127 mandati di cattura. Un’apocalisse per Cosa Nostra.

L’inchiesta di Falcone si rivela un successo senza precedenti per lo Stato. È in quei giorni che, accanto all’Ucciardone, cominciano a scavare. Costruiscono una gigantesca aula bunker, una cittadina blindata a prova di attentato. Il maxi processo a Cosa Nostra si farà lì. Il maxi processo che non riusciranno mai a vedere due degli uomini che, al fianco di Falcone, hanno rivoltato e ripulito la città. Sei mesi prima dell’inizio del dibattimento ammazzano anche loro. Il commissario Giuseppe Montana viene ucciso sul molo di Porticello il 28 luglio del 1985, il 6 agosto tocca a Ninni Cassarà. È la prima controffensiva al terremoto provocato dal pool antimafia.

L’incontro con Beppe Montana

Mi cerca una settimana prima. Un pomeriggio me lo ritrovo a casa, non era mai capitato prima. Ci siamo sempre visti da lui, alla squadra mobile, nei corridoi del Tribunale, ogni tanto a colazione alla «Taverna di John», dietro piazzale Ungheria. Beppe Montana sale, gli apro la porta, cerca con gli occhi un divano e ci sprofonda sopra. Preparo un caffè, mi sembra stanco, nervoso. Non gli chiedo niente, perché è venuto a casa mia, cosa è successo, se ha qualcosa da dirmi. Parla lui, dopo qualche minuto: «Mi sembra di girare a vuoto, più scopro questa città e più trovo schifezze. Mi accenna a un’indagine sulla quale sta lavorando, riciclaggio. «Non ti posso raccontare molto. Ma in procura non mi vogliono far andare avanti, io cerco mafiosi e loro vogliono che mi occupi delle partite comprate e vendute del Palermo». Ancora non gli chiedo perché è venuto. Beve il caffè, si alza dal divano. Sulla porta mi dice: «Siamo segnati, siamo soli anche in Questura».

Sette giorni dopo Beppe Montana è morto. Il 6 agosto, è la volta di Ninni Cassarà. Sotto il palazzo dove abita, davanti agli occhi di sua moglie Laura. Sono in quindici ad aspettarlo, alcuni armati di Kalashnikov. Qualcuno probabilmente li avverte. Una talpa. Dentro la polizia ce ne sono tante. E Cassarà, più di una volta, ha sospettato dei suoi superiori. Con il capo della sezione «investigativa» muore anche Roberto Antiochia, l’agente fedele che da anni guarda le spalle a un poliziotto particolare, un investigatore raffinato, un uomo colto, coraggiosissimo. Giovanni Falcone non perde solo lo sbirro che più di altri ha creduto in lui. Piange un amico. Un paio di giorni dopo non sono più a Palermo, sono a Roma. È più tranquilla per me. Sono in redazione a Repubblica e giù, in portineria, c’è una donna che mi cerca. È una signora di una certa età, capelli bianchi, gentile, triste, due occhi lucidi di lacrime. Si presenta: «Sono Saveria Antiochia…».

È la madre di Roberto, mi consegna una sua lettera sulla vita da cani che hanno costretto a fare a suo figlio, al commissario Montana, a Ninni Cassarà. Mandati allo sbaraglio. Nei suoi appunti c’è scritto che l’auto blindata li ha spesso lasciati a piedi, durante qualche pedinamento l’hanno dovuta anche spingere a mano. Porto la lettera di Saveria a Eugenio Scalfari che la pubblica in prima pagina. Si scatena l’inferno al ministero degli Interni. Un alto funzionario del Viminale chiama il mio direttore e lo informa che io «sono portatore di interessi palermitani». Sì, è vero. Quelli di Montana e di Cassarà.

Le vendette trasversali

I Corleonesi lanciano la loro sfida anche con le «vendette trasversali». Fanno fuori i parenti dei pentiti. Trentacinque sono quelli che perde Salvatore Contorno. Dieci Tommaso Buscetta. La campagna terroristica di Totò Riina – chi parla muore! – si apre con l’agguato a Leonardo Leuccio Vitale, un mafioso che tredici anni prima è entrato alla squadra mobile di Palermo in preda a una crisi mistica denunciando 42 boss. Il primo della lista è Totò Riina, allora quasi ignoto agli investigatori. I giudici lo dichiarano «pazzo», internano Leonardo Vitale in un manicomio criminale. Quando Leuccio torna in libertà tutti si dimenticano di lui. Tutti tranne Riina. I pentiti sono «indegni». Rovinano famiglie. Parlano per la «mesata» o per regolare conti con i nemici di cosca. Inventano «tragedie» e spifferano minchiate. Nel gergo dei palermitani entrano nuovi vocaboli.

La prima volta che sento pronunciare certe parole è sui moli dell’Arenella, una delle borgate di Palermo. Ci sono alcuni ragazzini che giocano, si inseguono, si sfottono. Uno grida all’altro: «Sei muffuto», sei spione. L’altro gli risponde: «E tu sei cornuto e Buscetta». Per offendere qualcuno, a Palermo non si dice più «cornuto e sbirro» ma «cornuto e Buscetta». Una sera mi siedo al tavolo di un ristorante dietro la centralissima piazza Politeama. Scelgo il vino, poi con gli amici guardiamo il menu. Arriva il cameriere, sorride, chiede: «Vi posso aiutare?». Polpettine di sarde. Linguine con i ricci. Panata alla palermitana. Prima di andarsene, il cameriere fa un sorriso e dice: «In questo ristorante abbiamo tutto ma non serviamo Contorno»

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