Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.

È venuto il momento di guardarlo più da vicino, Stefano Bontate – o Bontade, secondo le mutevoli preferenze di cancellieri, magistrati, saggisti, giornalisti, storici –, il capomafia che il pentito Calderone indica come primo sponsor mafioso di Giuseppe Insalaco.

Le cronache giornalistiche, che amano applicare alle cose di mafia lo stile del feuilleton, lo definiscono «il principe di Villagrazia». Padre Ennio Pintacuda, il gesuita che fu padre spirituale e consigliere di Leoluca Orlando, studioso della politica e conoscitore profondo di uomini e cose di Palermo, sostiene che il soprannome appartenne al padre di Stefano, Francesco Paolo Bontà (o Bontate o Bontade), don Paolino, sanguigno capomafia, celebre per aver schiaffeggiato, negli anni Cinquanta, un onorevole disobbediente nel cortile del Palazzo dei Normanni, la sede dell’Assemblea regionale siciliana.

Gesto famoso, assurto a emblema del rapporto tra la mafia e la politica. Meno ricordato è che la sorella di don Paolino, Margherita Bontade, zia di Stefano, fu per vent’anni, dal 1948 al 1968, deputata democristiana. Pintacuda lo scrive in un’accurata ricostruzione della storia politica palermitana: «Paolino Bontade, mafioso e massone, soprannominato il principe di Villagrazia, fece eleggere la sorella deputato nazionale Dc».

L’onorevole zia Margherita

Altrove, anche in testi di autorevoli studiosi di mafia, il legame di sangue tra l’onorevole e il capomafia stinge in una più blanda parentela e spesso scolorisce nelle nebbie della probabilità. Immagino che il poter contare su tre grafie diverse del cognome – l’antico Bontà, poi Bontate e Bontade – abbia avuto il suo peso nel rendere poco decifrabili i legami di parentela.

Eppure Margherita Bontade (così sempre indicata dal sito della Camera dei deputati) fu personaggio di rispetto nella costellazione democristiana del dopoguerra. Nell’aprile 1948, unica donna tra i venticinque deputati che la Sicilia occidentale elegge alla Camera, ha 41 anni e un curriculum di devotissima donna di Chiesa: la sua biografia da parlamentare la indica come militante dell’Azione cattolica, delegata diocesana per i fanciulli, fondatrice delle Acli, le associazioni cattoliche dei lavoratori. Insignita della croce d’oro Pro Pontifice et Ecclesia, attivissima nella comunità diocesana su cui domina il cardinale Ernesto Ruffini, lo zio del ministro che per primo spezzò una lancia a favore degli euromissili.

Da deputata al Parlamento nazionale, con una tenacia insolita in una donna che tiene a descriversi tutta intenta a occuparsi di Chiesa e opere di bene, sceglierà di farsi nominare per quindici anni di fila nella Commissione Lavori pubblici e di farne anche da segretaria.

È degno di nota che questa sua irriducibile militanza coinciderà con gli anni del sacco di Palermo, l’assalto dei costruttori mafiosi alla città sotto la guida del Comune affidato al sindaco Salvo Lima e all’assessore Vito Ciancimino. L’ultima legislatura di donna Margherita, che coinciderà con l’insediamento della prima Commissione parlamentare antimafia, vedrà un’improvvisa sterzata nei suoi interessi: archiviati i lavori pubblici, l’onorevole democristiana virerà sulla Commissione industria e commercio.

La Navicella, il catalogo generale degli eletti, autorevole bussola di navigazione nelle biografie dei parlamentari prima dell’irruzione di Wikipedia, tratteggia la carriera di questa donna come una marcia trionfale: di elezione in elezione, Margherita Bontade moltiplica i consensi, passando da trentacinquemila a settantunmila preferenze, scala le posizioni fra gli eletti, salendo da undicesima a quinta, salvo poi precipitare al quattordicesimo posto nel maggio del 1968.

Quattro anni prima il suo potente fratello, don Paolino, è morto. Al momento del voto, la sorella non ce la fa: è la seconda dei non eletti. La sua carriera parlamentare finisce lì. Sarà stata una coincidenza, si capisce. Nella fotografia pubblicata dalla Navicella, Margherita Bontade ha uno sguardo profondo, un volto rotondo, i capelli raccolti in una crocchia, un’aria da maestra all’antica. Il sito della Camera enumera i suoi numerosi interventi in favore del risanamento del centro storico di Palermo (argomento che starà poi molto a cuore a Vito Ciancimino).

I salotti romani

Spesso, nell’elenco dei firmatari dei disegni di legge, il suo nome figura appaiato a quello di un altro palermitano, Giovanni Gioia, fanfaniano e ministro potentissimo, il primo democristiano di Sicilia che venne definito mafioso con sentenza.

Difficile dire quale eredità i vent’anni di militanza democristiana della zia abbiano lasciato al nipote Stefano, grande frequentatore di salotti mondani. Quel che è certo è che il giovane capomafia ha amicizie influenti, una rete segreta di relazioni. Il 20 agosto 1997, in un interrogatorio, Siino dirà di lui: «Bontate sapeva sempre tutto, a ogni livello, sia di polizia che di giustizia. Non so come facesse, ma in molte occasioni riuscì a comunicare in anticipo ai diretti interessati provvedimenti di polizia o di giustizia che li riguardavano».

A giudicare dai racconti dei collaboratori di giustizia, il quadro dei rapporti tessuti da Stefano Bontate è vasto e interessante. Nel 1974 è lui il capodelegazione della comitiva di siciliani che, tra il 16 e il 29 maggio, va a Milano per incontrare un giovane costruttore di gagliarde ambizioni: Silvio Berlusconi. È una comitiva di mafiosi pieni di soldi e decisi a fare affari.

A Berlusconi li presenta un palermitano che farà carriera, Marcello Dell’Utri. La discussione, per usare la meravigliosa formula che la Corte di Cassazione adotterà nella sentenza sulla mafiosità di Dell’Utri, si conclude con «un accordo di reciproco interesse» Cinque anni dopo, nella primavera del 1979, Bontate è il ruvido interlocutore che, secondo il pentito Francesco Marino Mannoia, discute con Giulio Andreotti la sorte di Piersanti Mattarella, il presidente della Regione che vuole una Sicilia «con le carte in regola».

Dopo il suo assassinio, sostiene Marino Mannoia, Bontate tornerà a incontrare il leader democristiano e gli dirà brutalmente: «Qui in Sicilia comandiamo noi». C’è su Bontate una battuta misteriosa di Buscetta. Una battuta che colpì Sciascia, che la definì «impagabile».

La scena si svolge nell’aprile 1986, nell’aula bunker dove è in corso il maxiprocesso: Buscetta siede sulla sedia dei testimoni. Un avvocato ricorda la fuga di Sindona a Palermo, la conversazione del bancarottiere con Bontate sul progetto di golpe e domanda a Buscetta: «Bontate non era preoccupato di essere custode di simili segreti?» E Buscetta: «I segreti di Sindona! Erano una piuma, in confronto ai segreti che aveva Bontate». Annota Sciascia, con una vena di malinconica ironia: «Una piuma, i segreti di Sindona.

Si può immaginare di qual piombo fossero i segreti della vecchia, buona, nobile mafia, che Bontade custodiva». Nota a margine: Sciascia scriveva «Bontade», riproducendo la forma del cognome dell’onorevole zia, non «Bontate» – che è la grafia preferita dai magistrati.

Eppure, con tutta la sua astuzia, la sua ricchezza, le sue conoscenze, Stefano Bontate non coglie un segnale inquietante di debolezza della sua famiglia di mafia. Succede durante il sequestro Moro, nella primavera del 1978, quando il figlio di don Paolino riunisce la commissione per riferire che alcuni politici hanno chiesto l’aiuto di Cosa Nostra per ottenere la liberazione del leader Dc, prigioniero delle Br. E Pippo Calò, il boss palermitano che in quegli anni è saldamente insediato a Roma, situato all’incrocio dei più influenti poteri criminali della capitale, dalla banda della Magliana all’estremismo nero, lo rimbecca bruscamente: «Stefano, ma ancora non l’hai capito! Uomini politici di primo piano del suo partito non lo vogliono libero».

È Francesco Marino Mannoia a riferire la dura replica di Calò alla richiesta di Bontate, la sottolineatura brutale che sono «i suoi», i compagni di partito di Moro, a non volerlo libero. Nell’arroganza con cui Calò striglia Bontate, trattandolo come uno sprovveduto provinciale, ignaro dei grandi giochi romani del potere, si avverte l’avviso sinistro di un cambio di stagione.

È il segno che i collegamenti politici di Bontate non sono più solidi come un tempo, i suoi riferimenti nelle stanze del potere sono con le persone sbagliate, i perdenti. È l’annuncio che un nuovo gruppo di mafia, il gruppo nel quale Calò milita, ha rapporti politici più forti e affidabili. È strano che un mafioso come Bontate, che aveva respirato fin dalla nascita l’aria di Cosa Nostra, non abbia sentito rintoccare in quel momento una campana a morto.

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