Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.

In un enorme, polveroso magazzino di Ciaculli, in un giorno di vento gelido, tagliente, ho consultato i faldoni che custodiscono le delibere approvate dalla giunta Insalaco. C’è tutta l’ironia di Palermo nell’aver scelto di collocare l’archivio degli atti del Comune – di un Comune che per anni i corleonesi tennero in uno stato di soggezione – in un disadorno capannone nella borgata che fu il feudo dei Greco. La prima delibera dispone che si invii a Roma una delegazione, con il gonfalone del Comune, per la marcia antimafia del 5 maggio.

La seconda riguarda l’installazione di un radiotelefono sulla macchina del sindaco. Ottocentomila lire la spesa. Il primo ad avere il telefono in macchina, a Palermo, era stato Arturo Cassina.

La marcia del 5 maggio, la prima organizzata contro la mafia dagli studenti di tutta Italia, fu «un mezzo fallimento». O così apparve a Nando Dalla Chiesa, il figlio del generale assassinato, che andò all’appuntamento in piazza con molte speranze. Dalla Sicilia partì un treno carico di ragazzi. A Roma si ritrovarono a sfilare spaesati in una città distratta. Finirono a urlare in corteo: «Roma Roma capitale / non stare lì a guardare». A piazza Farnese, punto d’arrivo della marcia, trovarono sotto il palco un solo leader di partito.

Era Enrico Berlinguer, il segretario del Pci. I giornalisti gli chiesero un commento. Berlinguer sorrise, non disse una parola e se ne andò. Il giorno dopo il quotidiano romano il Messaggero dedicò alla manifestazione una fotonotizia in prima pagina e un titolo anodino: «15mila contro la droga». La parola mafia si maneggiava ancora con cautela.

Un commento di Giancarlo Caselli, allora giudice istruttore a Torino, pubblicato in cronaca di Roma, dà l’idea dello spirito del tempo. Così comincia: «Per riuscire a vincere (o quanto meno a contenere) la criminalità organizzata...» Un progetto fin troppo cauto per il magistrato che, dieci anni dopo, nella rovina della Prima Repubblica, metterà sotto accusa per mafia il sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti.

Fare “antimafia”

«Fare l’antimafia», come allora si diceva, non era ancora un modo per garantirsi una carriera; al contrario, rischiava di bruciarla. Eppure è su quel fronte che Insalaco si sbilancia in gesti senza precedenti. Sabato 21 aprile, vigilia di Pasqua, va di buon mattino a deporre una corona in via Isidoro Carini, nel luogo dell’agguato al generale Dalla Chiesa. Mezz’ora dopo si sposta a Brancaccio per fare gli auguri di Pasqua al personale del commissariato.

È un gesto che ha il sapore di una sfida: un anno prima, l’inaugurazione del presidio di polizia è stata salutata dalla mafia del quartiere con un attentato. Il sindaco scrive a Leonardo Sciascia, gli chiede di incontrarlo. In un’intervista lo scrittore ha appena definito Palermo «una città di padroni e servi», immutata da quel secolo diciottesimo in cui «era residenza di duemila famiglie nobili (di più o meno probabile nobiltà)». Una città retta da «un governo invisibile, che non è quello dello Stato. Efficiente, tutto sommato».

Sciascia lo riceve, parlano– forse più Insalaco che il taciturno scrittore – il sindaco lascia di sé una buona impressione. Dopo l’assassinio, sarà Sciascia a rievocare quell’incontro: «Mi aveva scritto una lettera piena di fervore, appena eletto sindaco; era poi venuto a trovarmi. Mi era parso sincero nelle sue buone intenzioni».

Il 30 aprile, per il secondo anniversario dell’assassinio di Pio La Torre, il sindaco fa affiggere un manifesto che proclama «l’impegno della pubblica amministrazione a costituirsi scrupolosa custode dei valori di libertà di cui La Torre fu impareggiabile alfiere nella lotta per la pace e per la giustizia sociale nonché contro ogni organizzazione mafiosa eversiva».

Sono parole che non si sono mai viste stampate sui muri della città col simbolo dell’aquila di Palermo. Due giorni prima, il Comune ha dato la sua adesione a una manifestazione contro l’installazione dei missili della Nato a Comiso. I primi Cruise sono arrivati il 31 marzo. Pacifista. Antimafioso. Il neosindaco sembra irrefrenabile.

Assume per chiamata diretta al Comune la vedova di Paolo Giaccone, il medico legale assassinato perché ha rifiutato di aggiustare una perizia su un’impronta che inchiodava un mafioso.

Consegna personalmente al comunista Paolo Agnilleri un attestato di benemerenza firmato dal ministero dell’Interno. Poco più di un anno prima, nel marzo del 1983, Agnilleri è stato picchiato a Brancaccio, in un agguato «a opera di ignoti». Insalaco viene eletto con i voti di Brancaccio. Non può non sapere che il pestaggio di Agnilleri è opera della mafia del quartiere, e soprattutto dei fratelli Graviano, i pupilli di Totò Riina, che vogliono punire il giovane comunista per la sua insistenza nelle denunce contro la mafia.

L’attestato di benemerenza è una sfida e, venendo da un politico che in quelle zone ottiene centinaia di preferenze, somiglia a una provocazione. Perché lo fa?

La missiva sulla Strage di Ustica

Il 2 maggio scrive al presidente del Consiglio, Bettino Craxi, il primo socialista insediato a Palazzo Chigi, per chiedergli di non opporre il segreto di Stato sulla strage di Ustica.

Nella lettera, per quel po’ che se ne saprà dai giornali, il sindaco ipotizza un legame tra «i misteri di Palermo» e la sorte del Dc9 partito da Bologna e diretto a Punta Raisi, precipitato in mare il 27 giugno 1980, al largo dell’isola di Ustica [81 vittime]. Quando Insalaco prende carta e penna per scrivere a Craxi, indiscrezioni di stampa sostengono che alcune perizie effettuate dai laboratori dell’Aeronautica militare avrebbero accertato, nel relitto del Dc9, tracce di T4. Il T4 – ha subito avvertito il presidente dell’Associazione italiana dei magistrati militari, Vito Maggi – serve per fabbricare le testate dei missili aria-aria e le mine.

La presenza di quell’esplosivo lascerebbe pensare che l’aereo sia caduto mentre erano in corso nel Tirreno manovre militari. Significa avvalorare l’ipotesi che sia stato abbattuto da un missile. Non c’è notizia di una risposta di Craxi.

È abbastanza ovvio supporre che il presidente del Consiglio non abbia tenuto in nessun conto l’appello dell’oscuro sindaco di Palermo. Per puro scrupolo ho chiesto agli archivi di Palazzo Chigi di controllare se fosse stata conservata la lettera spedita da Palermo; non se ne è trovata traccia.

Più misterioso è il fatto che quel testo sia scomparso anche da Palazzo delle Aquile. E non da oggi, se nel luglio del 1990 il giornalista Sandro Acciari potrà scrivere su l’Espresso che la lettera di Insalaco, protocollata con il numero 865 dalla segreteria generale del Comune, è irrintracciabile. E potrà aggiungere: «Quel poco che si conosce dell’iniziativa del sindaco, lo si deduce da un altro documento, un comunicato destinato alla diffusione interna alla Dc palermitana».

Il documento è una protesta, firmata da Luigi Calderone, uno dei consiglieri comunali legati a Vito Ciancimino, che accusa Insalaco di «grave scorrettezza» per aver ipotizzato «un abbinamento tra la tragedia del Dc9 e i misteri di Palermo» e giudica una «indebita pressione psicologica, un ricatto morale» l’appello del sindaco al premier.

L’opinione dei cianciminiani è nettissima: «È certo che se l’onorevole Craxi, nell’esercizio di un diritto-dovere che gli conferisce la legge, dovesse adottare la dolorosa decisione del segreto di Stato, lo farebbe certamente costretto dalla necessità di tutelare i supremi interessi della nazione». Si fa fatica a immaginare gli scudieri di Ciancimino così in ansia per «i supremi interessi della nazione». L’accenno di Insalaco ai misteri di Palermo non era forse del tutto fuori luogo.

L’avvocato Alfredo Galasso, che è stato parte civile per le famiglie delle vittime di Ustica, ricorda uno strano episodio: «All’indomani della tragedia, comparve sul giornale L’Ora un necrologio firmato da Gheddafi nel quale il leader libico esprimeva la propria vicinanza al popolo siciliano per la sciagura».

In realtà, il necrologio, listato a lutto, che L’Ora pubblica il 2 luglio del 1980 (un mese esatto prima della strage alla stazione di Bologna: coincidenza golosa per gli appassionati di cabale complottiste) così recita: «Il Consolato Generale della Giamahiriah Araba Libica Popolare Socialista partecipa sinceramente al dolore che ha colpito i familiari delle vittime della sciagura aerea di ustica e manifesta tutta la sua solidarietà al Presidente della Regione e al Presidente dell’ars per questo nuovo lutto che ha colpito la Sicilia». Misterioso necrologio, con tutte le sue roboanti maiuscole.

È noto che una delle ipotesi più accreditate sulla sciagura di Ustica è che il Dc9 sia stato colpito da un missile durante un duello di jet militari per abbattere l’aereo libico sul quale viaggiava Gheddafi. E che di missile si trattasse lo ha stabilito una volta per tutte, nell’aprile 2015, la Corte civile d’Appello di Palermo.

Trent’anni prima, il pittoresco necrologio era un messaggio in codice di chi sapeva già tutto? Un modo per far capire a chi doveva e poteva intendere che il leader libico era ben consapevole di essere stato il bersaglio mancato di un agguato nei cieli? Nell’autunno del 2013 ho chiesto copia della lettera di Insalaco alla segreteria generale del Comune: mi è stato risposto che, dopo attenta ricerca negli archivi, si era molto spiacenti di comunicare che la lettera «non risulta».

Non hanno avuto miglior fortuna né la Procura della Repubblica di Palermo né il giudice istruttore Rosario Priore, autore di una accurata, documentatissima indagine giudiziaria sul disastro aereo di Ustica. Nella monumentale sentenza-ordinanza sulla strage firmata da Priore, ho trovato traccia della lettera di Insalaco, e dello scacco subito nel cercare di rintracciarne il testo.

Nel capo sei di quel documento, al primo capitolo, intitolato «Documentazione acquisita presso la Segreteria Speciale della Presidenza del Consiglio dei Ministri», si legge di un tentativo fallito della Procura palermitana di ottenere copia della lettera. Annota il giudice Priore: «Ignote, pertanto, sono rimaste le motivazioni sull’invio della missiva a Craxi da parte di Insalaco».

Tra i molti misteri di Ustica, dunque, c’è pure la scomparsa di una lettera ufficiale, debitamente protocollata, del sindaco di una città di seicentomila abitanti al presidente del Consiglio del suo paese a proposito di una sciagura aerea che è costata la vita a 81 cittadini di quel paese. L’archivio del gabinetto dei sindaci di Palermo si trova a Palazzo Galletti, un elegante edificio neogotico che sorge su un lato di piazza Marina, davanti alla cancellata che il 12 marzo 1909 vide crollare al suolo, colpito da quattro proiettili alla schiena, Joe Petrosino, il poliziotto italoamericano sbarcato in Sicilia per indagare sui capi della Mano nera. C’è un’altra città europea la cui geografia sia così potentemente segnata dal delitto? E dal delitto impunito, se nel 2014, dopo più di un secolo, si arriverà ad azzardare un nuovo nome per il possibile colpevole dell’assassinio di Petrosino?

La carpetta  rossa  semivuota

A Palazzo Galletti la carpetta rossa che contiene i documenti della stagione Insalaco è semivuota. Sembra messa assieme con grande svogliatezza. Neanche qui c’è alcuna traccia della lettera a Craxi: né di una prima bozza né di un testo definitivo.

E le uniche due copie delle dichiarazioni programmatiche del sindaco devono la loro sopravvivenza a un errore: erano state infilate nelle buste destinate a due presidenti di consigli di quartiere il cui indirizzo risultò sbagliato e che dunque vennero restituite al mittente.

Per il resto, ci sono decine di copie dell’elenco degli assessori: democristiani, socialisti, repubblicani, socialdemocratici, liberali, tutti insieme in una giunta di pentapartito, secondo la formula in voga all’epoca.

Ci sono i documenti di accettazione dell’incarico da parte di quei medesimi assessori. Scorro l’elenco: c’è il vecchio e il nuovo. Alle manutenzioni, l’assessorato che sovrintende ai grandi appalti, un cianciminiano, Salvatore Midolo. Al decentramento, Leoluca Orlando.

Il diavolo e l’acquasanta. Nella carpetta rossa, altre poche carte: la brutta copia del saluto di Insalaco al presidente della Repubblica Sandro Pertini insignito di una laurea ad honorem nell’Università di Palermo, gli appunti di un discorso rivolto al direttore del giornale Il progresso italoamericano in visita in città... Lette dal sindaco nell’aula del Consiglio comunale il 7 maggio, le dichiarazioni programmatiche consistono di venti pagine dattiloscritte. Sulla prima figura un titolo che sembra più adatto a un manifesto o a un editoriale: «La mafia, la violenza e il malcostume».

Trapela dalle prime righe la traccia di un’umiliazione: «Dai giornali a tiratura nazionale, ma anche dai servizi televisivi della Rai, questa amministrazione, con il sindaco in testa, è stata messa a confronto con la precedente. In buona sostanza si è detto: dopo la strage di via Carini c’è stato il sindaco del rinnovamento, ora c’è quello dell’apparato».

E subito, come per difendersi da quel sospetto: «Fin dal primo momento ci siamo impegnati a fare della lotta alla mafia un vessillo dietro il quale, compatti, si porranno l’amministrazione e il Consiglio comunale di questa città».

Poi il sindaco richiama il dovere di osservare la legge e «prima fra tutte, la Rognoni-La Torre», quella che manda in bestia i capi di Cosa Nostra perché li colpisce nella roba, col sequestro e la confisca dei patrimoni illeciti.

Fa ragionamenti di mafiologia elementare, che in quell’aula, però, possono risultare fastidiosi: «Ormai il mafioso con la coppola e la giacca di velluto ritengo non esista più e abbia indossato il vestito grigio, cercando di mettere sempre più le mani sull’apparato Sta a noi scovarlo e allontanarlo, isolarlo. Attenzione e trasparenza, insieme all’utilizzo della legislazione antimafia, potranno ridare fiducia ai cittadini».

Trent’anni dopo, è facile sostenere che fu una scelta di puro opportunismo proiettarsi sulle trincee dell’antimafia. Ma nella prima metà degli anni Ottanta, non era affatto certo che fosse una battaglia popolare. Né a Palermo né a Roma.

Lo stato della lotta a Cosa Nostra è evidente l’8 maggio, quando arriva in città una delegazione della Commissione antimafia per incontrare i parenti delle vittime. Su quaranta commissari, si presentano in diciassette, neanche la metà, e questo dà già un’idea dell’interesse.

A Palazzo dei Normanni, la sede dell’antico parlamento siciliano, deputati e senatori incontrano la moglie e il fratello del poliziotto Boris Giuliano, la vedova del procuratore Gaetano Costa, la vedova del colonnello Russo, la vedova del medico legale Giaccone, la vedova del giudice Terranova. Ascoltano le denunce accorate dei ritardi, delle omissioni, delle inerzie, degli errori grossolani che costellano le indagini. Emanuele Giuliano, fratello di Boris, e Rita Bartoli Costa, vedova del procuratore Gaetano, dicono addirittura di non fidarsi di quelle indagini.

Ed è una sconsolata confessione, la testimonianza di una delusione senza riscatto. Nel 1952 don Primo Mazzolari annotò nel suo Viaggio in Sicilia: «La sete di giustizia dei siciliani, spesso, è vera arsura». Nulla di più vero per i parenti delle vittime di mafia. Allora come oggi.

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