Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.

Ci sono giorni che ci cambiano la vita e noi li attraversiamo ignari, inconsapevoli: nessun segno, nessun annuncio, nessuno squillo di tromba ci avverte della possibile felicità o del baratro imminente.

Il 9 novembre 1979 Giuseppe Insalaco firma la propria rovina, e non lo sa. Da due anni è stato nominato commissario dell’Istituto statale per i sordomuti, un incarico di sottogoverno di quelli che il partito al potere assegna con generosità a chi vive di politica.

Quel giorno d’autunno, nello studio del notaio Giuseppe Maniscalco, Insalaco firma l’atto di vendita di un terreno di ventimila metri quadri, che da quindici anni l’Istituto possiede nella borgata di Falsomiele. Gli acquirenti sono due cugini, entrambi costruttori, Gaetano e Michele Saccone. Il prezzo viene fissato in cento milioni di lire. A versarli, però, non sono gli acquirenti, ma un terzo Saccone, rispettivamente zio e cugino di Michele e Gaetano.

Si chiama Orazio, anche lui è un costruttore. Qualche anno dopo figurerà negli atti del maxiprocesso come uomo d’onore della famiglia di Santa Maria di Gesù, un fedelissimo di Stefano Bontate. Falsomiele, con quel nome ingannevolmente dolce, è una borgata di mafia, in quell’area orientale di Palermo che è il tradizionale dominio della famiglia Bontate.

E proprio un’agenzia bancaria di Falsomiele, una filiale della Cassa Rurale e Artigiana di Monreale, per ordine di Orazio Saccone, il 9 novembre 1979 emette due assegni per un importo di 166 milioni. Cento vanno al commissario dell’Istituto Sordomuti, Giuseppe Insalaco, e sono il prezzo per la vendita del terreno, gli altri sessantasei sono destinati a una donna, Maria Vittoria Agnello.

Bionda, elegante, moglie separata di un notaio, la baronessa Agnello è la nuova compagna di Insalaco, che da un anno si è separato dalla consorte. Il 12 novembre, tre giorni dopo la vendita del terreno, quei sessantasei milioni vengono dirottati su un conto privato di Insalaco. Sulla girata dell’assegno, figura la firma della baronessa.

Anche a uno sguardo superficiale, l’operazione appare turbinosa: ci sono due tipi che comprano e un terzo che paga; chi sborsa i soldi firma, contemporaneamente, due assegni, intestati l’uno a un uomo pubblico, l’altro alla sua compagna. Cinque anni dopo, nel febbraio 1984, l’affare del terreno venduto ai Saccone verrà ricostruito in una lettera anonima inviata alla Procura della Repubblica, un attimo prima che Giuseppe Insalaco diventi sindaco. È un anonimo dettagliato, scritto da qualcuno che sembra aver conservato in un dossier tutti i passaggi di quell’operazione, compreso il numero di serie degli assegni. Servirà prima per minacciare Insalaco, poi per affondarlo.

La morte di Restivo e la “nuova” avventura politica

In un duello pubblico con Piercamillo Davigo, inflessibile magistrato del pool Mani Pulite, nei primi anni Novanta, Giuliano Ferrara lanciò, come un guanto di sfida, una massima che è un capolavoro di cinismo: «Chi non è ricattabile non può fare politica». Anche a voler prendere per buona la provocazione, tocca domandarsi dove si trovi la centrale operativa del ricatto.

Quale archivio conserva le carte, i dossier che serviranno per ricattare un politico? E chi può dare l’ordine di aprire gli archivi al momento giusto? Nell’autunno del 1979, per Insalaco, insidie e minacce anonime sono ancora lontane. Quel democristiano non ancora quarantenne appare nel pieno di una fortunata scalata al potere. Il 17 aprile 1976 è morto improvvisamente Franco Restivo.

Rimasto orfano del suo padre politico, Insalaco ha dovuto scegliere una corrente: si è accampato tra i fanfaniani. È una scelta che alcuni suoi compagni di partito hanno giudicato sorprendente: Giovanni Gioia, il capo dei fanfaniani, è stato rivale di Restivo e alleato di Vito Ciancimino.

Insalaco dovrebbe considerarlo un avversario, se non un nemico. Ma è noto che la coerenza non rientra tra le virtù apprezzate in politica. La scelta frutta a Insalaco un premio. Il 24 novembre 1978, a trentasette anni, viene nominato assessore all’Annona nella giunta del sindaco Salvatore Mantione, un pacioso farmacista che milita tra gli andreottiani di Salvo Lima e che ha lasciato di sé un unico, patetico ricordo: la sua sollecitudine per il leone di Villa Giulia, un macilento felino che trascorreva tristi giornate chiuso in gabbia nel bellissimo giardino di corso Tuköry.

La Palermo innominabile dei boss e dei ministri

Il giovane assessore capisce al volo come farsi notare. Lancia una sfida all’abusivismo commerciale, fa chiudere più di trecento esercizi che non sono in regola con le norme annonarie. C’è della furbizia in quella crociata. È un modo per ottenere titoli sui giornali e garantirsi visibilità, intestandosi una battaglia di moralizzazione.

Ma è anche un ottimo stratagemma per costringere i commercianti a venire a patti con il nuovo assessore, sfilando rassegnati nel suo ufficio per contrattare la riapertura. Ci sono scelte più segrete, in quegli stessi anni. Secondo Antonino Calderone, un mafioso catanese che apparirà sulla scena dopo il maxiprocesso come un collaboratore di giustizia di prima grandezza, Insalaco, dalla seconda metà degli anni Settanta è sotto la protezione di Stefano Bontate, il capomafia che ha studiato dai gesuiti. L’11 novembre 1992, al presidente della Commissione antimafia, Luciano Violante, che gli domanda seccamente: «Insalaco?», Calderone risponde: «So che Tanino Fiore, un uomo d’onore di Palermo, gli ha fatto la campagna elettorale con Stefano Bontade e dicevano: “Dobbiamo fare la campagna elettorale per il figlio di uno sbirro...” perché suo padre era maresciallo dei carabinieri o di pubblica sicurezza».

Chi sa come avrebbe reagito il capomafia se avesse saputo che il «figlio dello sbirro» teneva in una cassapanca, in camera da letto, l’uniforme di gala del padre maresciallo e aveva l’abitudine di spazzolarla spesso, in un gesto di devozione che appare molto siciliano.

E chi sa quali erano i pensieri del giovane democristiano che aveva scelto di raccomandarsi a un capomafia mentre tirava a lucido la divisa del padre carabiniere.

Nell’autunno del 1979 Bontate è uno dei capi più temuti e rispettati di una Cosa Nostra che è appena diventata la prima potenza criminale al mondo. In un saggio datato 1990 sulla mafia siciliana e i suoi traffici mondiali, Claire Sterling, giornalista con ottimi agganci negli apparati di sicurezza Usa, racconta come sia stata una decisione americana a favorire l’ascesa dei siciliani.

È accaduto che il presidente Richard Nixon, nei primi anni Settanta, prima di finire triturato dallo scandalo Watergate, abbia dichiarato guerra al business della droga e abbia insediato una commissione speciale, la Task Force One, affidandone la guida a Henry Kissinger, con l’incarico di sbaragliare i trafficanti. Condotta con l’energia di una crociata, la guerra voluta da Nixon modifica l’assetto mondiale del commercio di stupefacenti in una fase in cui il numero di consumatori di eroina nel mondo, grazie alle politiche mafiose di moltiplicazione della clientela, va esplodendo.

La pressione americana porta alla distruzione della French connection, mandando a picco gli affari dei clan corsi di Marsiglia che erano allora i maggiori raffinatori di eroina al mondo, e costringe la mafia turca, che controlla l’importazione della morfina base dall’Oriente, a cercare nuovi alleati sulle sponde del Mediterraneo.

La scelta cade sui siciliani: legati ai padrini d’oltre Atlantico da solide reti di parentela, i mafiosi dell’isola sembrano i più capaci di impadronirsi delle nuove rotte del traffico, anche perché possono sfruttare le sperimentate vie del contrabbando di tabacchi. Non che i siciliani siano gli ultimi arrivati nel traffico di stupefacenti: se ne occupano da decenni.

Ma una cosa è smerciare il prodotto finito e un’altra cosa controllare tutti i passaggi della raffinazione, acquistando la materia prima e trasformandola in eroina. I guadagni schizzano alle stelle. Tommaso Buscetta data al 1978 «l’ingresso massiccio della mafia nel mercato dell’eroina». Un fiume di denaro inonda la Sicilia.

Il business della droga e la stagione degli omicidi eccellenti

Vignetta di Dario Campagna

Nel 1979 la Dea, l’agenzia antidroga americana, calcola che il business della droga nel mondo equivalga a trentamila miliardi di lire. Quasi cinque volte di più del fatturato che poteva allora vantare la Fiat – e una Fiat che contava duecentomila dipendenti. È in quella stagione che comincia la più violenta mattanza che mai Cosa Nostra abbia condotto contro i suoi nemici nelle istituzioni, nella politica, nella società civile.

Gli assassinii, a Palermo, si succedono con lugubre cadenza. L’elenco è impressionante: nel 1979 muoiono un giornalista, Mario Francese (26 gennaio), il segretario provinciale della Dc, Michele Reina (9 marzo), il capo della Squadra Mobile, Boris Giuliano (21 luglio), un magistrato, Cesare Terranova, insieme con il maresciallo Lenin Mancuso che gli fa da scorta (25 settembre); nel 1980 cadono il presidente della Regione, Piersanti Mattarella (6 gennaio), il capitano dei carabinieri, Emanuele Basile, comandante della compagnia di Monreale (4 maggio), il procuratore della Repubblica, Gaetano Costa (6 agosto).

In più di trent’anni nessuno ha spiegato in maniera convincente perché un’associazione criminale che aveva praticato una più che secolare cultura della cautela nel rapporto con le istituzioni, badando a usare l’assassinio di persone estranee all’organizzazione come estrema arma di difesa e di offesa, abbia deciso improvvisamente di inaugurare una martellante campagna di sterminio e perché lo abbia fatto prima di scatenarsi in una guerra che porterà una cosca a prevalere sulle altre.

Come se la mattanza di (certi) uomini delle istituzioni fosse la logica premessa alla possibilità di regolare i propri conti interni e di affermare la propria supremazia senza incontrare alcuna resistenza. Nessuno, soprattutto, ha spiegato perché questa campagna sia stata condotta in condizioni di totale impunità. Come se gli squadroni della morte mafiosi, e soprattutto i capi che nell’ombra li manovravano, sapessero di poter contare sull’arrendevolezza dei poteri dello Stato, su un tacito accomodamento.

Soltanto dieci anni prima, negli anni Sessanta, le stragi avevano prodotto blitz, invii al confino, spettacolari repressioni: una reazione dello Stato, magari scomposta e inutile, ma esibita nello sforzo di mostrare una maschera di fermezza, un simulacro di vitalità. Alla fine degli anni Settanta, nulla succede. Al più, si conia una formula nuova: si parla di «terrorismo mafioso».

A sinistra, si inserisce un aggettivo: «terrorismo politico-mafioso». È una formula studiata per suggerire un’analogia tra gli assassinii siciliani e quanto va accadendo nel resto d’Italia. In soli due anni, dal 1979 al 1980, il terrorismo rosso uccide 52 persone – e sono poliziotti e carabinieri, giornalisti e magistrati. E poliziotti e carabinieri, magistrati e giornalisti vengono ammazzati a Palermo.

Gli obiettivi della mafia

Ma sparare alle stesse persone – o meglio, alle stesse categorie di persone – non significa avere gli stessi obiettivi. A differenza dei brigatisti, Cosa Nostra non vuole abbattere lo Stato. Il più diabolico dei suoi talenti, da sempre, sta nell’allearsi con il potere, qualunque potere, avendo cura di schierarsi dalla parte del più forte.

E mentre la costellazione del terrorismo rosso stila volantini, produce documenti, rivendica i delitti e chiede che i propri proclami siano pubblicati dai giornali, la mafia tace. Se rivendica, lo fa per depistare. Quando il democristiano Michele Reina viene ucciso, un uomo telefona in questura per rivendicare l’assassinio a nome di Prima Linea, una sigla della galassia brigatista.

Ci vorranno anni per scoprire che a fare quella telefonata è stato un mafioso. Ma le formule, in politica, non sono mai innocenti. Tracciare un’equivalenza con i terroristi significa indicare i mafiosi come forze estranee al sistema, suggerire che vogliano sovvertire il corso del potere.

Un’operazione che somiglia a un esorcismo. Almeno due persone dissero d’intravedere in quella sequenza di uccisioni un disegno, e un disegno politico – e furono un magistrato, Rocco Chinnici, e un segretario di partito, il comunista Pio La Torre. Anche loro saranno assassinati.

Negli anni le loro intuizioni sono state accantonate e l’interpretazione prevalente della mattanza si è spostata sulla bestialità mafiosa, come se criminali che manovravano, in quegli anni, centinaia di miliardi e avevano rapporti d’affari dall’Oriente all’Occidente potessero consentirsi il lusso di comportarsi da animali.

Scriverà in Romanzo civile Giuliana Saladino: «Non esiste città o cittadina o villaggio d’Europa che possa vantare – senza golpe, senza eserciti in armi, né assedio e irruzione entro le mura – l’intero establishment politico burocratico militarpoliziesco massacrato: capo della Procura, vice questore, capo dell’opposizione, capo della regione, medico legale, generale prefetto.

In quest’era nostra forse è accaduto – ma non è detto – in qualche villaggio georgiano sotto Stalin, forse accade – non sappiamo con precisione – in qualche Macondo dell’America centrale o meridionale, forse, supponiamo, in qualche insediamento del centro dell’Africa. In Europa, nazismo eccettuato, non accade, credo, da oltre due secoli».

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