Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.

Dopo una lunga gavetta, il primo agosto 1968 il giovane segretario ottiene la sua consacrazione ufficiale nello staff del ministero: viene inquadrato nel gabinetto del Viminale come collaboratore del ministro dell’Interno Franco Restivo. Un anno dopo si sposa. La sposa è andata a trovarsela in paese. L’ha incontrata durante una campagna elettorale. Si chiama Piera Salamone. Quando si conoscono lei ha quattordici anni, lui ventuno. Una lontanissima parentela li unisce. Per sposarsi, aspettano che lei compia la maggiore età.

Le nozze si celebrano a Palermo, nella cappella del Gonzaga, l’istituto dei gesuiti. Evento privatissimo, che ha però un suo eclatante risvolto pubblico. La cerimonia sancisce il successo mondano del giovane Insalaco. Testimone per lo sposo è il ministro Restivo. «E il secondo testimone» ricorda Piera Salamone, «fu il sindaco di Palermo, Francesco Spagnolo». È un giorno di luglio; al cocktail di ricevimento, nei giardini del Gonzaga, arriva un mare di invitati. «C’erano cinquecento persone al nostro matrimonio. Tanti venivano da Roma. C’era il capo della polizia, Angelo Vicari, e c’era il generale dei carabinieri Enrico Mino. C’era Emanuele De Francesco, che era allora il vicario del questore Mangano, e c’era Carlo Alberto Dalla Chiesa, ancora colonnello»

L’uomo ombra di Restivo

Negli album di nozze colpisce il contrasto tra la giovinezza degli sposi e l’anzianità degli autorevoli invitati. Lo sposo appare raggiante, forse appena intimidito dalla folla di divise e di grisaglie. La sposa, nel suo abito bianco, è bellissima: bionda, minuta, con i capelli raccolti in uno chignon.

Dopo la morte di Insalaco, gli album di nozze verranno sequestrati. E minuziosamente controllati. Si voleva capire – spiegarono gli inquirenti alla moglie, ormai separata – se tra gli invitati c’erano mafiosi. Mafiosi? A brindare nel giardino dei gesuiti con il capo della polizia e il ministro dell’Interno? La carriera romana di Restivo è cominciata nel 1958, con l’elezione a deputato nazionale.

Lo storico Francesco Renda l’ha descritta come un esilio: l’esodo dalla Sicilia di una generazione di democristiani che venne detta di «notabili», spodestati dai «giovani turchi» che si riconoscevano nella segreteria di Amintore Fanfani, primi fra tutti Giovanni Gioia e Salvo Lima. Una forma di rottamazione ante litteram, sia pure di lusso. Nel passaggio dalla generazione di Restivo a quella di Gioia e Lima cambiano i rapporti con gli uomini di Cosa nostra.

Ecco l’analisi che, di quel passaggio, fa la relazione di minoranza del Pci nella Commissione antimafia: «Giovanni Gioia passa dalla linea restiviana di alleanza soltanto elettorale e governativa con forze di destra che erano espressione organica di cosche mafiose, ma che restavano distinte e separate dal partito democristiano, a una concezione che mirava ad assorbire all’interno della Dc quelle stesse forze».

Più efficace è l’immagine che di quella trasformazione offre Giuseppe Campione, segretario della Dc siciliana alla metà degli anni Ottanta: «La generazione dei notabili aveva sì rapporti con la mafia, ma avendo cura che i mafiosi sedessero dall’altra parte del tavolo. Con l’avvento dei fanfaniani, uomini nuovi, senza carisma, tutto cambiò: l’intimità con i mafiosi diventò normale». Ci si cominciò a sedere dalla stessa parte del tavolo, insomma. Rottamato a Palermo, dove era stato per sei anni presidente della Regione, Restivo inaugura a Roma una lunga carriera come ministro. Comincia dall’Agricoltura, nel 1966.

La strage di Viale Lazio

Nel giugno del 1968, la nomina a ministro dell’Interno. Sono anni di fuoco per la democrazia italiana. Letteralmente. Per capirlo, basta ricordare due stragi. La prima porta la firma di Cosa Nostra: Palermo, 10 dicembre 1969, un commando di uomini travestiti da poliziotti irrompe negli uffici del costruttore Girolamo Moncada, in viale Lazio, e comincia a sparare. La vittima designata è Michele Cavataio, detto «il Cobra», un mafioso che si è lanciato nel business dell’edilizia.

Con lui, muoiono altri tre mafiosi. Quarantott’ore dopo, il 12 dicembre, a Milano una bomba esplode nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura. I morti sono diciassette, 84 i feriti. È la strage di piazza Fontana. Terrorismo al Nord, mafia al Sud: è un binomio che si ripresenterà più volte nella storia d’Italia. In quel 1969 le due stragi parallele segnano ognuna un passaggio. Piazza Fontana è il punto d’inizio della strategia della tensione, la miscela torbida di estremismo nero, terrorismo, servizi segreti, apparati dello Stato specializzati in depistaggi che per anni insanguinerà l’Italia. Strage senza colpevoli, come Portella della Ginestra.

Il massacro di viale Lazio segna il debutto dei corleonesi sulla scena palermitana: nel commando omicida c’è Bernardo Provenzano e, tra i morti, il cognato di Totò Riina, Calogero Bagarella. Nell’angoscia che atterrisce l’Italia in quel lugubre dicembre, Palermo è considerata una frontiera minore: il luogo dove si ammazzano tra loro, secondo la formula che servirà a lungo come alibi per giustificare la disattenzione, il rifiuto di ogni impegno contro la mafia. A Insalaco, da segretario del ministro, tocca presidiare questa frontiera periferica.

È un incarico che manterrà fino al 17 febbraio 1972, quando Restivo traslocherà – per quattro mesi soltanto – al ministero della Difesa. Nasce in quegli anni la fama di Insalaco come uomo dei servizi, conoscitore di segreti, collezionista di dossier. Mai nulla di provato, mai un documento – piuttosto, un chiacchiericcio costante, un sussurro insistente.

È una leggenda? E Insalaco la subisce? O è lui stesso ad alimentare i dubbi – per incutere timore, per ottenere rispetto? Angelo Siino sostiene che Insalaco si vantò con lui di appartenere a un «servizio supersegreto» del ministero dell’Interno. Era una vanteria senza fondamento? Dopo il delitto, si fece il nome di Gladio, la rete di resistenza anticomunista – che non dipendeva comunque dal Viminale. I capi dei servizi segreti smentiranno tutti e sempre che Insalaco appartenesse a qualunque struttura. Ma le smentite, su argomenti del genere, per come vanno le cose in Italia, a torto o a ragione, suonano sempre come conferme.

Sull’inquadramento ufficiale di Insalaco negli organici del Viminale fornirà un quadro minimalista, dopo l’assassinio, il ministro dell’Interno Amintore Fanfani. Con la prudenza che l’aver a che fare con un morto ammazzato ispira, il 26 gennaio 1988 il ministro riferirà alla Commissione Affari costituzionali della Camera che il politico palermitano era sì inserito nel gabinetto ministeriale, ma «senza espletare», cioè senza mettere piede a Roma, «essendo utilizzato nella segreteria particolare del ministro Restivo con soggiorno a Palermo».

E così completerà il ritratto: «Insalaco chiese poi di essere inquadrato come dipendente non di ruolo con la qualifica di diurnista. Gli venne richiesto il titolo di studio; non lo fece pervenire. Nel 1974 la sua domanda fu definitivamente respinta». Non era poi una grande pretesa: il diurnista – secondo il dizionario Devoto-Oli – è il dipendente di un’amministrazione statale, assunto per lavori saltuari, che ha diritto a essere pagato a giornata per un trentesimo dello stipendio mensile di un avventizio. Poco più di un precario. Nessuna sorpresa che Insalaco abbia deciso di lasciar perdere. Aveva scelto un altro mestiere: la politica.

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