Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.


Quando muore il capitano, Lucia ha dieci anni, Manfredi otto, Fiammetta sei. Sono i tre figli di Paolo Borsellino.

Ricorda sua moglie Agnese: «Fino all’omicidio di Emanuele Basile la nostra è stata una vita normale, come quella di tante famiglie palermitane. Ci incontravamo nei giorni di festa con i parenti o con gli amici, qualche collega di mio marito, i ragazzi erano spensierati». Poi è il finimondo.

Paolo Borsellino è il primo magistrato siciliano con una scorta. Tre carabinieri e una sgangherata Alfa Romeo color amaranto che divide con Antonino Gatto, il sostituto procuratore della repubblica titolare con lui dell’inchiesta sull’uccisione dell’ufficiale dei carabinieri. È una tranquilla vita borghese quella che viene sconvolta.

Tutta la città è testimone della metamorfosi di un uomo e di un giudice.

«Chi te lo fa fare?», gli dice qualche amico.

«Tanto la medaglia non te la danno lo stesso», lo avvertono alcuni colleghi.

Paolo Borsellino scuote la testa, perde il sorriso. Non gli piacciono quei discorsi. Non li manda giù. Sente un groppo in gola. È un magistrato, un uomo perbene, ha giurato di far rispettare la legge. Quelle chiacchiere non lo fermano. Ma neanche lui sa ancora in quale fossa si sta per infilare.

Né Paolo Borsellino né nessun altro, in quegli ultimi mesi del 1980, può sospettare che dietro a quei tre sicari presi a Monreale ci siano i nuovi capi della mafia siciliana.

C’è Totò Riina.

In un Tribunale dove è consuetudine «buttarsi dietro il pietrone», confondersi, nascondersi, Paolo Borsellino si ritrova sempre un passo avanti agli altri. È in vista, allo scoperto. Additato come un giudice troppo audace e con la «mania» delle indagini.

Lui è convinto di aver fatto tutto quello che doveva fare nell’istruttoria sulla morte di Basile. Ed è sicuro che i tre sicari del capitano saranno condannati. C’è ressa al Palazzo di Giustizia, la mattina del 7 ottobre del 1981. Una folla di parenti. Nonne, figli, nipoti. Nella prima aula della Corte di Assise di Palermo comincia il processo per l’agguato nella notte del Santissimo Crocifisso.

Una bella giornalista americana della Cbs si aggira per il tribunale con la sua troupe, i principi del Foro sono tutti schierati, gli imputati ai ceppi. Ridono spavaldi, i tre. Come se non temessero l’ergastolo.

Un giudice popolare viene subito cacciato. È pregiudicato. Un altro è già stato «avvicinato» da un avvocato del suo

paese. Alla quarta udienza, il primo presidente della Corte di Appello Giovanni Pizzillo firma a sorpresa un’ordinanza di espulsione dall’aula di tutti i fotografi e cineoperatori. Vuole «evitare elementi di distrazione».

È quasi un processo a porte chiuse.

Più il dibattimento va avanti e più s’intuisce che in quel processo c’è un solo imputato: il giudice istruttore. È lui, Paolo Borsellino, la fonte di tutte le «disgrazie» dei tre dietro le sbarre. È lui che non ha creduto a certi testimoni, che non ha tenuto conto di una nuova perizia sulle armi, che ha voluto investigare solo su di loro scartando fin dal principio qualsiasi altra pista.

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