Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

Il patto scellerato fra il partito moderato di Cavour e la nobiltà feudale siciliana è all’origine di quel mancato sviluppo dell’autogoverno e di una borghesia moderna in Sicilia. Ma, dopo aver riconfermato il suo dominio, l’aristocrazia terriera ha bisogno di un forte potere repressivo per tenere a bada i contadini. Il potere legale che è in grado di esercitare lo stato sabaudo è insufficiente, nonostante il ricorso ripetuto allo stato d’assedio.

La classe dominante siciliana sente, allora, il bisogno di integrarlo con quello extra-legale della mafia, che si realizza sul feudo con i «gabellotti», i «soprastanti» e i «campieri». Si gettano così le basi del sistema di potere mafioso che si intreccia, come potere informale, con gli organi del potere statale; si realizza una vera e propria compenetrazione fra mafia e potere politico, con l’obiettivo di tenere a bada le classi sociali subalterne.

Ad una parte dei ceti medi, a cui si impedisce di diventare borghesia moderna, si apre la prospettiva della cooptazione nella classe dominante con l’accesso alla proprietà terriera, passando attraverso la trafila della «gabella» che consente di sfruttare e taglieggiare i contadini. Via via, d’altra parte, che l’aristocratico si allontana sempre più dalla terra, si apre la via al ricatto contro di esso e si offre spazio al «gabellotto» di essere lui l’erede del feudo, e cioè di essere affiliato alla classe dominante, e magari, poi, di conquistarsi il titolo di barone.

La ricerca del consenso popolare

La mafia, d’altro canto, ricerca un consenso di massa per meglio raggiungere i suoi obiettivi. La mafia fa leva sull’odio popolare contro lo «stato carabiniere», contro un potere statale estraneo, antidemocratico ed ingiusto, che nulla offre al popolo e sa solo opprimerlo.

La mafia compie così una grande mistificazione, utilizzando il malcontento popolare, per fini contrari agli interessi reali del popolo siciliano: essa ha bisogno dell’omertà, per assicurarsi l’impunità nei suoi delitti, e cerca, anzi, ila solidarietà dei siciliani.

Viene così qualificato «sbirro» chi riconosce l’autorità dello stato, che è per sua natura nemico della Sicilia: il siciliano non deve riconoscere lo stato di polizia, anzi si sostiene che da questo stato, che l’opprime, si deve difendere. In tal modo la mafia riesce a dominare il popolo siciliano ed a giustificare il suo potere extralegale.

Ecco la radice dell’omertà, a cui certo si aggiunge, poi, la paura, il terrore della rappresaglia, che la mafia organizza contro chi si ribella alla legge della omertà.

Ma questo gioco della mafia ha successo perché lo stato non sa offrire al popolo siciliano null’altro che la repressione e egli stati d’assedio: nel 1860 con Bixio, nel 1863 col generale Covone, nel 1871 col prefetto Malusardi, che menò vanto di aver debellato la mafia, ricevendone onori e precedendo in ciò il prefetto Mori; e, infine, con la repressione del movimento dei fasci, nel 1893-94, sino al fascismo.

Ecco la ragione del fallimento storico della lotta alla mafia. Un particolare interesse ha l’analisi del fenomeno mafioso, di fronte al fascismo. Con l’avvento del fascismo gli agrari si sentono più tranquilli. Il potere fascista garantisce, in prima persona, la repressione del movimento contadino.

Ecco perché si affievolisce il bisogno di far ricorso al potere extra-legale della mafia: la pace sociale è garantita dallo stato legale, che offre agli agrari grossi vantaggi nella immediata modifica dei patti agrari a danno dei mezzadri e dei coloni siciliani e nel prolungamento della giornata lavorativa del bracciante.

La “leggenda” del prefetto Mori

La miseria nelle campagne siciliane, nel periodo fascista, è spaventosa: vi è una disoccupazione di massa. Si conoscono, poi, le conseguenze nefaste della battaglia del grano, di quella politica economica che portò alla riduzione delle aree trasformate a vigneto, ad agrumeto, ad ortofrutticoli.

Ai braccianti venne offerto il miraggio delle terre di Abissinia. Aumentò la superficie delle terre incolte e mal coltivate. C’è poi una leggenda da smentire: che nel periodo fascista esistesse l’ordine assoluto. La verità è che la stampa non libera non raccontava tutto e quindi non si sapeva quante rapine, quante estorsioni, quanti sequestri di persona in quel periodo avvenissero.

Lo stesso prefetto Mori, nella sua autobiografia, mentre afferma di aver dato un colpo alle bande organizzate nelle Madonie, e quindi al banditismo vero e proprio, sulla questione della mafia non riesce a dire niente di serio: anzi, a un certo punto, mena vanto di avere integrato nel sistema fascista i «campieri» dei feudi.

Ecco perché la mafia non è scomparsa, perché nel periodo fascista ha potuto vegetare all’ombra del potere senza bisogno di compiere gesti particolarmente clamorosi. L’alta mafia uscì indenne dalla repressione fascista.

La repressione indiscriminata, con le retate di massa, le perquisizioni su larga scala nelle case della povera gente all’epoca di Mori, ed in quelle successive, i metodi vergognosi della polizia fascista, il sistema delle torture per far confessare imputati spesso innocenti, sottoposti a sevizie inenarrabili, ebbero il triste risultato di alimentare l’odio di massa contro lo stato.

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