Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale. 

La relazione di maggioranza (o del Presidente) della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno dalla mafia in Sicilia — che chiude più di undici anni di attività — non può ritenersi in alcun modo soddisfacente, delude le attese dell'opinione pubblica, non rafforza il prestigio delle istituzioni democratiche. Ciò accade perché, sin dall'inizio, non si è voluta fare una scelta politica netta a proposito della genesi e delle caratteristiche del fenomeno mafioso.

Pur affermando che «la Commissione si è proposta di ripensare in una prospettiva politica le conclusioni a cui è pervenuta la storiografia sulla mafia» e che il dato caratteristico peculiare che distingue la mafia dalle altre forme di delinquenza organizzata è «la ricerca del collegamento con il potere politico», si oscilla, nel seguito, fra la tesi sociologica della mafia come «potere informale» che occupa il «vuoto di potere» lasciato dallo Stato, e la realtà storica della compenetrazione fra il sistema di potere mafioso e l’apparato dello Stato.

Si sfugge cioè al nodo centrale della questione: che tale compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico).

È d’altronde un giudizio storicamente acquisito che la formazione dello Stato unitario nazionale ha significato l'avvio della trasformazione della economia e della società italiana in senso capitalistico, sotto la guida della borghesia. Per assolvere questo suo ruolo dirigente, la borghesia italiana ha dovuto scegliere, di volta in volta, quelle intese e quei compromessi con le vecchie classi dirigenti dell'Italia preunitaria, pervenendo alla formazione di un blocco fra gli industriali del Nord e gli agrari del Sud.

Cioè la borghesia non ha governato, come tuttora del resto non governa, da sola, ma ha dovuto dividere il potere con le altre classi e, per un lungo periodo, soprattutto con i grandi proprietari terrieri, specie con quelli meridionali e siciliani. Il fenomeno mafioso, come è storicamente accertato, si colloca all'origine di questo processo di trasformazione della società italiana e, con riferimento ad una regione come la Sicilia, ne diviene un elemento costitutivo.

La mafia sorge e ricerca subito i suoi collegamenti con i pubblici poteri della nuova società nazionale, e a pubblici poteri accettano, a loro volta, di avere collegamenti con la mafia, per scambiarsi reciproci servizi. Un accordo di potere in Sicilia non può prescindere dalla classe dominante locale costituita dal grande baronaggio. È ragionevole, quindi, supporre che il collegamento fra mafia e pubblici poteri non avvenga senza la partecipazione diretta del baronaggio. Questa circostanza sembra comprovata dalla geografia del fenomeno mafioso, e non in termini sociologici, ma politici.

La Sicilia occidentale, con la capitale Palermo, è stata la base materiale della potenza economica, sociale e politica del baronaggio prima della Unità. Ed è qui, e non nell'altra parte dall'Isola, che si avviano le nuove forme di collegamento mafioso con i pubblici poteri.

I mafiosi? Non solo gabellotti e campieri

La mafia è quindi un fenomeno di classi dirigenti. Come tale, pertanto, la mafia non è costituita solo da «soprastanti», «campieri» e «gabellotti», ma anche da altri componenti delle classi che esercitano il dominio economico e politico nell'Isola, cioè da appartenenti alla grande proprietà terriera e alla vecchia nobiltà. Finora si è cercato di presentare il proprietario terriero più come vittima che come beneficiario della mafia; tutt'al più si è riconosciuto che il vantaggio da lui ricevuto sia stato quello di avere nella mafia una guardia armata del feudo.

Il prefetto Mori è arrivato perfino ad affermare che il proprietario terriero, in quanto fornito di beni (patrimoniali estesissimi, non può essere considerato mafioso anche se, per ipotesi, ha colluso con la mafia. Ma se questo fosse vero, bisognerebbe dimostrare che i gruppi sociali più forti in Sicilia in questi cento anni di unità nazionale sono stati i «campieri», i «soprastanti» e i «gabellotti», e non i baroni e i grandi proprietari terrieri, ciò che urta perfino contro il senso comune.

Se una circostanza è lecito riproporre in sede di giudizio storico sullo sviluppo della società siciliana e meridionale, questa è che l'affittuario o «gabellotto», che dir si vaglia, non ha avuto possibilità di «viluppo autonomo, cioè come borghesia nascente, come nella valle padana, ma è stato costretto ad accontentarsi di un semplice ruolo subalterno nell'ambito del modo di produzione latifondistico.

Protagonista e beneficiario di questo modo di produzione è stato fondamentalmente il grande proprietario terriero, e non il «gabellotto» tant'è che il «gabellotto» quando la fortuna e la capacità gli hanno arriso, si è trasformato anche lui in proprietario (terriero, avendo al suo servizio nuovi «gabellotti» (e così gli è stata offerta, attraverso anche il fenomeno della mafia, la possibilità di essere cooptato o assimilato nella vecchia classe dominante).

Interpretare la mafia come fenomeno della classe dirigente isolana, con la partecipazione decisiva del grande baronaggio della Sicilia occidentale, non significa che tutti i membri delle classi dirigenti siano stati o siano, come tali, membri attivi della mafia, ma solo che i membri della mafia rappresentano una sezione nient'affatto marginale delle classi dominanti, i cui interessi, appunto, possono anche entrare, poi, in contraddizione, nello svolgimento dei fatti, con aspetti dell'attività della mafia stessa.

Il popolo siciliano nel 1860 non si riconosce nel nuovo stato perché dopo le promesse garibaldine: 1) viene soffocata nel sangue la sete di terra dei contadini siciliani: Bixio a Bronte e tutte le repressioni successive, sino a quella dei fasci del 1893-94; 2) viene immediatamente tradita l'aspirazione all'autogoverno del popolo siciliano. A tutto ciò si aggiunga il servizio militare obbligatorio, le tasse ingiuste, la corruzione e le angherie delle classi dominanti. Ma il punto centrale è l'ostacolo allo sviluppo di una borghesia moderna e il rifiuto dell'autogoverno.

© Riproduzione riservata