Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.


Pensavamo che con la morte di papà fosse finito tutto e, invece, fu solo l’inizio di un altro calvario parallelo alla sua vita, per noi ma soprattutto per me, che oggi, nonostante siano trascorsi da allora venticinque anni, combatto cercando di rendergli giustizia. Al pomeriggio del funerale ci fu la tumulazione. Dai giornali appresi finalmente parte della verità.

Avevo sempre intuito, e poi toccato con mano, che eravamo una famiglia sui generis, ma solo la carta stampata mi diede la spiegazione completa di ciò che eravamo e ciò che era soprattutto lui. Parlavano del potente boss Luigi Ilardo, della parentela con la altrettanto potente famiglia mafiosa Madonia, scrivevano che era stato ucciso sotto casa da clan rivali per l’egemonia sui territori nisseni e dell’ennese, che era bramoso di potere, di conquista e per questo fu fermato. Per certi versi fu una sorpresa per me, perché nonostante la familiarità con ciò che leggevo non avevo mai avuto completo e chiaro il quadro della situazione e dei suoi affari, segreti, all’infuori della gestione della campagna e della nostra famiglia. Parlavano di estorsioni, appalti, interessi della mafia sulla gestione di opere pubbliche.

[…] Nel frattempo iniziavamo a vedere la famiglia di Cettina sempre più presente in casa, vedevamo fare scatoloni, impacchettare, portarli giù in garage; lei non ebbe mai il coraggio di dirci che aveva deciso di tornare a casa di sua madre.

[…] Con il tempo riprendemmo a uscire e frequentare le discoteche. Fu durante una serata che conoscemmo Michele, un ragazzo un po’ più grande di noi che, impietosito dalle nostre precarie condizioni, decise di aiutarci. Divenimmo grandi amici in poco tempo e, siccome era in cerca di casa anche lui, affittò un appartamento più grande dove ospitarci a sue spese. […] Fummo costrette a rientrare a casa. Riaprendo la porta di via Quintino Sella, quella leggerezza, quel distacco dai ricordi belli ma soprattutto brutti, il dolore, le lacrime e la terribile scena nel garage riaffiorarono alla mente. Il silenzio era padrone, niente più girelli e risate, niente primi passi dei miei fratelli, niente più rumori di giochi, nessun telefono squillava e nessun citofono suonava.

Non c’era più nulla che ricordasse la presenza dei gemelli, di Iury, della famiglia felice che eravamo stati, anche se per pochi mesi, in un tempo non lontanissimo. Nessuna voce in quell’appartamento buio; il nonno, rimasto solo, non si preoccupava neanche più di sollevare le serrande per far entrare luce e aria pulita in casa. Si era completamente lasciato andare, era «morto» insieme a suo figlio. Lo trovammo seduto a capo di una tavola vuota, provato, depresso, tanto invecchiato; per un «uomo d’onore» come lui la nostra fuga era imperdonabile, ma appena ci guardò, già dai primi momenti, trasparì che anche lui era profondamente cambiato, aveva perso tutta la sua potenza, la sua voglia di comandare e dettare legge.

Da leone capobranco si era ridotto a un uccellino indifeso. Uscimmo, incredule, e decidemmo di continuare il pellegrinaggio nella vecchia casa amata andando nella stanza di papà, dove scegliemmo di trasferirci per vivere e dormire. Quello era il posto in cui era più vivo il suo ricordo, nonostante una parte di noi volesse solo dimenticare per continuare a sopravvivere e, un giorno, a vivere ancora. Aprimmo il suo armadio... ogni cosa era al suo posto, ordinata come sempre in modo ossessivo. Al solo spalancare l’anta fummo avvolte dal suo odore, prendemmo qualche maglione e vi affondammo il viso, chiedendo a Dio il perché di quella grande penitenza inflitta a due ragazze innocenti e colpevoli solo di essere nate, senza nessuna richiesta, da una famiglia maledetta. Dovevamo stare lì almeno fino al compimento dei miei diciotto anni.

Con il nostro rientro a casa, riprendemmo i contatti con gli uomini di mio padre. Avevano le chiavi della campagna di Lentini, avevano non so come – me lo chiedo soprattutto oggi sapendo come funzionano la legge, le normative sui passaggi di proprietà e le assicurazioni – l’utilizzo di qualche sua macchina rimasta. Ritornavamo spesso a Lentini accompagnate da loro; quella splendida, ricca e rigogliosa proprietà, piena di animali, uomini, mezzi pesanti, auto e qualsiasi bene, aveva perso ogni vita. Solo le strutture e gli edifici testimoniavano ancora la sua esistenza.

Durante la nostra permanenza là eravamo spesso raggiunte da visite di amici e uomini di papà che, nonostante la differenza di età, con antica devozione e rispetto conferivano con noi come se fossimo due donne adulte. Parlavamo dell’accaduto, di quello che era stato detto, di quello che era stato fatto, del ruolo di papà, di chi altro era caduto ammazzato, di chi era scappato e di chi ancora era finito in galera. Si impegnarono di farsi carico del nostro futuro, affinché non ci mancasse nulla. Si discuteva di alcuni beni materiali che avrebbero venduto a Lentini – camion, bobcat, scavatori – per dare il ricavato a noi e soddisfare le nostre esigenze. Eravamo sempre due ragazze della mafia, senza averlo chiesto.

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