Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.


Cominciò il lungo processo. Non ci fu dibattito cui non partecipai, cui non presiedetti. Passai anni nell’aula Serafino Famà del Palazzo di Giustizia di Catania, seduta immobile, senza nessuno accanto se non la scorta del magistrato.

Due anni di processo, di dibattimenti, di difese, di bugie infamanti, di attesa, furono il peggiore e più ingombrante dei conviventi, sempre presenti. Arrivò la prima sentenza. Poi ci fu la conferma in Corte d’appello: quattro ergastoli, tra cui uno per mio zio Giuseppe Madonia, designato come il mandante dell’omicidio, suo cugino, il suo stesso sangue. Forse avrei dovuto provare sollievo, felicità. Venti anni per sentire quei nomi, per arrivare a quella giustizia tanto attesa.

Ma così non fu, non lo è ancora oggi. È difficile spiegare, provare a descrivere ciò che il mio animo prova, soprattutto o meglio esclusivamente, alla luce delle accuse e delle responsabilità accertate di mio zio. Ho passato giorni di angoscia, di continui pensieri, di infinite elaborazioni su quelle ultime parole pronunciate dal giudice.

Mio padre e mio zio erano legati da un profondo affetto fraterno... mio zio nacque insieme alle sue sorelle sul tavolo di casa mia e rimasti orfani della madre, la sorella di mio nonno, crebbero con papà e i miei due zii. Erano cugini sulla carta ma fratelli nell’animo. Erano compagni di gioco, di feste, presenze fisse l’uno nella vita dell’altro.

A mio padre – sbagliando per loro, facendo bene per molti altri, e lasciando il mio personale giudizio in un limbo – non posso negare la verità delle conseguenze delle sue scelte. Le sue confessioni fecero arrestare circa una cinquantina di persone, ma tra loro ci furono anche le mie zie. Privò, come accadde a noi, le mie cugine e i miei cugini delle loro madri.

Quelle zie con cui noi eravamo cresciute, con cui ogni domenica avevamo condiviso la tavola, le feste, ogni ricorrenza bella o brutta che fosse. Facevano parte della nostra vita, della nostra quotidianità. Quella fu la cosa che mi creò più dolore e imbarazzo, soprattutto agli occhi delle mie cugine che, come me e Francesca, non hanno mai avuto colpa alcuna se non quella di essere nate in una famiglia «diversa» dalle altre.

Le ho viste soffrire, affrontare con immensa dignità fin da giovani la vita da sole, sposarsi, partorire i loro figli senza i genitori accanto, e di ciò, ahimè, non posso che sentirmi in colpa, nonostante la mia totale innocenza. Magari sarebbe accaduto a prescindere, ma avere la certezza che la causa del distacco da mia zia, e il conseguente calvario, porti il nome di mio padre, mi ha fatto sempre sentire in difetto nei loro confronti, per qualche verso responsabile, nonostante di responsabilità io non ne avessi nemmeno una.

Non ho mai avuto il coraggio di dirglielo guardandole negli occhi, ma tra tutte le pene e i sentimenti contrastanti che il mio cuore rincorre questo è uno. Analizzando la posizione di mio zio, che cosa doveva fare? Poteva opporsi a chi in Cosa nostra portò alla sua attenzione un tale tradimento da parte di mio padre? Per quanto brutto sia e forse poco comprensibile, soprattutto detto da me, lui, loro sono rimasti coerenti con il proprio protocollo.

Mio padre decise di dissociarsi, non loro, e sempre mio padre sapeva perfettamente a cosa sarebbe andato incontro oltre ogni ragionevole affetto, parentela. Ragionando per ipotesi – perché altro io non posso fare – che soluzione avrebbe avuto mio zio Piddu dal fondo della sua galera? Opporsi a quella richiesta pur sapendo della «condotta scorretta» che il suo cugino fraterno aveva deciso di intraprendere a discapito delle promesse e degli impegni presi con la vita che aveva suggellato e, per lui, «scelto» di vivere? Nella mia testa, nel mio cuore, dal mio limbo non posso farmi giudice delle scelte della mia famiglia.

Però, a differenza di tutto il resto del mondo che conosce solo un lato della medaglia, per alcuni versi e forse anche a denti stretti, non posso che fare un passo indietro e come la più equa delle bilance dire che loro non hanno fatto altro che rimanere «coerenti» con il loro ordinamento e con un imprescindibile «statuto».

Questa sentenza a me non porta altro che ulteriore amarezza, e la sensazione di una parziale sconfitta è fonte di enormi tormenti interiori. Continuo a ripetere che mai al mondo condannerei le scelte fatte da mio padre, anche perché solo lui sa cosa ha passato e subito in quegli undici anni di reclusione, ma metto in dubbio il modo in cui ha attuato la scelta di una nuova vita.

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