Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.


Il pomeriggio del 23 maggio del 1992 Paolo Borsellino è dal barbiere. Arriva la chiamata. È paralizzato. Corre a casa.

Telefona. Non riesce a parlare. Poi esplode in un grido disperato: «Giovanni, Giovanni è ferito… Capaci… un attentato».

S’infila nell’utilitaria della figlia Fiammetta e attraversa Palermo. Fino all’ospedale civico.

Francesca Morvillo si è appena spenta. Poi se ne va anche Giovanni Falcone.

«Mi è morto fra le braccia», dice fra le lacrime Paolo Borsellino alla figlia Lucia.

Il nuovo presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, è a Palermo il 26 maggio. Al Quirinale è entrato da meno di ventiquattro ore. «La strage di Capaci ha avuto un effetto stabilizzante», dicono in Sicilia. Dopo sedici votazioni a vuoto e una bomba l’Italia ha un nuovo Capo dello Stato. Il presidente della Repubblica è a Villa Whitaker con il prefetto Mario Iovine.

La Falange Armata rivendica l’attentato. Nessuno sa niente di quest’organizzazione. C’è puzza di spie.

Il Consiglio superiore della Magistratura nomina Giovanni Tinebra procuratore della repubblica di Caltanissetta, l’ufficio giudiziario che per competenza dovrà indagare sull’uccisione di Giovanni Falcone.

Paolo Borsellino è nella sua stanza in procura, si tormenta. Ripensa agli ultimi giorni, agli ultimi incontri con Giovanni Falcone, alle ultime confidenze ricevute.

È sera quando decide di uscire allo scoperto.

Lo va a trovare Giuseppe D’Avanzo. Rilascia un’intervista che spiega molte cose.

Purtroppo la Procura di Palermo non è titolare delle indagini. Dico “purtroppo" perché, se avessi avuto io la possibilità di seguire questa indagine, avrei trovato un lenimento al mio dolore. Quando si è verificato il primo omicidio che mi ha coinvolto emotivamente – l’omicidio del capitano Emanuele Basile – sono riuscito, facendo il mio dovere di magistrato, a superare la paura enorme e a spezzare il blocco emotivo. Per indagare sulla morte di Giovanni ho sollecitato la mia ‘applicazione’ a Caltanissetta, ma mi hanno ricordato che in quella città non c’è la funzione di procuratore aggiunto. In ogni caso andrò a Caltanissetta. Ci andrò come testimone. Per raccontare piccole cose che possono aiutare l’inchiesta. Riferirò fatti, episodi e circostanze. Racconterò gli ultimi colloqui avuti con Giovanni.

Io sono riuscito finora soltanto a fare un ragionamento essenziale in merito a tre questioni. Perché hanno ucciso Giovanni; perché lo hanno ucciso ora; perché lo hanno ucciso a Palermo. Va osservato che c’è una coincidenza tra l’omicidio e una notizia che io avevo appreso qualche giorno fa: Giovanni Falcone aveva ormai nel Csm la maggioranza per essere nominato procuratore nazionale antimafia. Avevo detto a Giovanni che queste condizioni ormai c’erano. Dell’esistenza di questa maggioranza avevo saputo, durante un convegno a Napoli la domenica prima dell’attentato, da alcuni membri del Consiglio. Nonostante la fortissima opposizione della magistratura alla sua candidatura, dunque, Giovanni ce l’aveva fatta. Era una sensazione che si era diffusa in questo palazzo. Voglio dire che non so se la notizia che Falcone sarebbe stato il nuovo procuratore antimafia era conosciuta fuori.

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