Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni, a cura dell’associazione Cosa vostra. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata a Trame, festival dei libri sulle mafie di Lamezia Terme, con 15 articoli sui temi al centro degli incontri del Festival.

Da almeno quarant’anni l’industria petrolifera conosce il suo impatto sull’ambiente eppure da decenni, addossa le colpe dei cambiamenti climatici alle scelte dei consumatori. È chiaro che la società civile, le imprese e gli altri stakeholders devono fare la propria parte, ma le compagnie petrolifere hanno una responsabilità doppia: causale e morale. Con la loro attività di disinformazione e di lobbying, le major continuano ad agire indisturbate nonostante le ricerche scientifiche dimostrino che il 75 per cento delle emissioni di gas serra dal 1988 al 2005 dipenda proprio dai Big oil, cioè i maggiori marchi produttori di petrolio. 

E allora, perché i petrolieri non pagano per aver concorso con i loro prodotti a creare la crisi climatica? Quali interessi ci sono dietro? Chi finanzia iniziative e ricerche di stampo negazionista che spostano il problema inquinamento su altri fattori endemici della società? Provano a spiegarlo e a indagare Marco Grasso e Stefano Vergine in 'Tutte le colpe dei petrolieri' (Piemme edizioni), un libro scritto a quattro mani sul lato oscuro dell’industria dell’oil&gas, che agisce sullo scacchiere internazionale con un doppio gioco.

Da un lato, i centri di ricerca delle lobby petrolifere attraverso analisi scientifiche riconoscono che i cambiamenti climatici sono in atto e hanno un impatto sul Pianeta, dall'altro, le stesse compagnie finanziano studi esterni con l'obiettivo di sminuire l'impatto della crisi climatica, con il neanche tanto velato intento di farci credere che non c’è futuro senza i fossili.

Petrolio

Il petrolio è ovunque: dai vestiti al make-up, dal dentifricio al computer. Si continua a investire sull’esplorazione, la raffinazione e la distribuzione di combustibili fossili come se non ci fossero alternative, il tutto mentre è scientificamente provato che ci saranno ripercussioni sulla salute perfino delle generazioni future, oltre che per l’ambiente. Gli studi dimostrano che le multinazionali del carbone producono emissioni che aumentano la Co2 (anidride carbonica) nell’atmosfera, influiscono sul riscaldamento globale e contribuiscono all’acidificazione degli oceani che porta inevitabilmente alla distruzione di ecosistemi marini. 

Secondo Grasso e Vergine, le majors dovrebbero sia pagare in base a quante emissioni hanno prodotto che avere il cosiddetto dovere di decarbonizzazione, ovvero smettere di contribuire in maniera massiccia ai cambiamenti climatici. Decarbonizzare l’industria petrolifera significa adottare modelli di business a bassa intensità di carbonio: cessare le attività o operare con fonti rinnovabili. Questo purtroppo non è quello che sta avvenendo, nonostante i moniti europei e le promesse di un futuro verde.

I Capi di Stato delle grandi potenze mondiali continuano a mantenere un atteggiamento ambiguo: nell’Accordo di Parigi fissano obiettivi come quello di contenere l’aumento globale entro 1,5 °C, ma non sono disposti a plasmare l’economia globale sulla Green economy.

Eppure fonti autorevoli spiegano che i costi per rinnovare l’apparato industriale e dare il via a una rivoluzione verde sarebbero ripagati in sette anni con la creazione di oltre 20 milioni di nuovi posti di lavoro. La spinta al cambiamento non sarà indolore, ma è necessaria.

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