Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Il pg ha dedicato una congrua parte della sua requisitoria finale, corredandola anche di una cospicua memoria, allo sforzo di rilanciare la tesi della colpevolezza di Calogero Mannino in ordine al medesimo reato per cui qui si procede nei riguardi dei suoi presunti correi; o meglio, la tesi di un pieno, attivo e consapevole coinvolgimento del Mannino nella vicenda che ci occupa anche in questa sede, per avere posto in essere entrambe le condotte che gli venivano contestate, [...].

E non lo ha fatto perché insegue un’impossibile e inutile rivalsa rispetto all’esito del separato procedimento definito nei riguardi dello stesso Mannino - che aveva optato per il rito abbreviato - con sentenza emessa dalla I Sezione di questa Corte d’Appello in data 22.07.2019, che ha confermato la sentenza di assoluzione del gup del Tribunale di Palermo ed è divenuta irrevocabile, avendo la Suprema Corte di Cassazione dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal pg avverso la decisione della Corte territoriale (tutte le sentenze del processo stralcio sono state acquisite agli atti del presente giudizio d’appello).

La ragione dell’apparente accanimento processuale risiede piuttosto nella consapevolezza, da parte dell’Ufficio requirente, che il ruolo di Calogero Mannino nella vicenda della c.d. trattativa stato-mafia è un pilastro irrinunciabile dell’intero impianto accusatorio, anche per gli ex ufficiali del Ros suoi originari coimputati e qui giudicati, e non soltanto per loro. E la soluzione “minimalistica” adottata dal giudice di prime cure — quando era ancora pendente il separato giudizio d’appello nei riguardi del Mannino — non è del tutto rassicurante e appagante, per la pubblica accusa.

La Corte d’Assise di primo grado ha preso in considerazione, delle due condotte che si contestavano al Mannino, soltanto la prima, ritenendo di non doversi occupare della seconda condotta perché quest’ultima riguardava specificamente ed esclusivamente la posizione del Mannino, stralciata dal presente procedimento, senza alcuna apprezzabile refluenza sulla posizione dei suoi originari coimputati.

Le accuse a Mannino

Quanto alla prima condotta, consistita nell’avere creato le premesse causali e motivazionali dell’iniziativa sviluppata dai carabinieri del R.O.S. attraverso i contatti intrapresi con Vito Ciancimino, che diede il via ad un’infausta trattativa con i vertici corleonesi di Cosa Nostra, essa non avrebbe in sé alcuna rilevanza penale, degradando a mero antecedente causale delle successive condotte poste in essere dagli imputati, che avrebbero concorso al reato nella veste di intermediari istituzionali. Per inciso, la separazione chirurgica effettuata dal primo giudice tra le due condotte che si contestavano al Mannino lascia intravedere già una crepa nell’apparto argomentativo della sentenza. Non si comprende infatti come sia possibile che, dopo avere concertato l’avvio di una complessa operazione mirata ad avviare un negoziato con i vertici di Cosa nostra, e quindi ad influenzare le scelte del governo nel senso della disponibilità a fare concessioni in cambio della cessazione delle stragi, sia il Ros, nella persona del generale Mori, sia lo stesso Mannino, in ipotesi mentore di quell’operazione, si sarebbero adoperati per esercitare pressioni sullo stesso soggetto, il dott. Francesco Di Maggio, vice Direttore del ap., affinché questi a sua volta orientasse nel senso da loro auspicato le scelte del Ministro della Giustizia Conso. E lo avrebbero fatto agendo per così dire all’insaputa l’uno dell’altro, o comunque senza curarsi di raccordarsi tra loro, di coordinare le rispettive mosse, con il rischio di intralciarsi a vicenda o di provocare effetti controproducenti come un irrigidimento, o l’irritazione del Di Maggio (che peraltro non risulta avesse alcun tipo di rapporto con il Mannino, al di là del fatto che fossero entrambi siciliani).

Ma anche al netto di simili perplessità, la soluzione chirurgica non basta a preservare l’esito del giudizio di primo grado dalle confutazioni difensive che possono ora avvalersi della ricostruzione fattuale consacrata nel giudicato assolutorio del processo stralcio a carico di Calogero Mannno. Una ricostruzione che nega che il politico siciliano abbia avuto un qualsiasi ruolo nella vicenda che ci occupa; e che quindi esclude anche quel ruolo propulsivo che la Corte d’Assise di primo grado gli ha invece riconosciuto, pur premurandosi di rimarcare come la condotta in cui tale ruolo si sarebbe sostanziato non ha in sé alcuna rilevanza penale e quindi lascia impregiudicata — e a sua volta non ne viene pregiudicata — la questione della penale responsabilità dell’imputato separatamente giudicato in ordine al reato per cui qui si procede.

D’altra parte, la conclusione cui è pervenuto il primo giudice di questo processo in ordine alla condotta del Mannino quale ispiratore dell’iniziativa poi concretamente intrapresa dai carabinieri del Ros è, nei suoi risvolti fattuali, piuttosto nebulosa e quindi già fragile in sé, a prescindere dalla forza d’urto di un giudicato che si pone in netto contrasto con la ricostruzione sposata dalla sentenza qui appellata. Ivi si assume come provato non già quello specifico ed esplicito mandato ipotizzato dall’accusa, secondo quanto recitava il capo d’imputazione, ma solo una non meglio precisata “sollecitazione” che, non è dato sapere in che modo e in che termini il Mannino avrebbe rivolto al Subranni - che a sua volta avrebbe girato tale sollecitazione agli ufficiali a lui direttamente sottoposti, e cioè Mori e De Donno - una sollecitazione volta anche solo “implicitamente” ad adoperarsi per verificare la disponibilità dei vertici mafiosi a trattare.

Nell’originaria prospettazione accusatoria, l’antefatto della vicenda che qui ci occupa risiederebbe nel timore, più che fondato, nutrito da Calogero Mannino a cavallo dell’omicidio Lima di essere ucciso da Cosa Nostra. Un timore lievitato nelle settimane e nei mesi successivi in corrispondenza di un crescendo di minacce nei suoi confronti e per essere stato avvicinato da emissari mafiosi, vuoi per indurlo ad adoperarsi in favore di Cosa Nostra, all’indomani del disastroso (per gli interessi mafiosi) esito del maxi processo, che gli presentava così il conto di pregressi e accertati rapporti di vicinanza su cui aveva costruito buona parte delle sue fortune sia politico-elettorali che affaristiche; vuoi per chiedergli conto del suo operato.

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