Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Sia consentito, in avvio di motivazione, svolgere alcune brevi considerazioni il cui senso potrà più compiutamente intendersi a esposizione completata.

Lo sforzo di dissecare i fatti sotto la spinta imperiosa del procedimento logico di verificazione delle prove d’accusa e della congruità dei ragionamenti posti a base della decisione impugnata ha prodotto, talvolta, un’involontaria parresia: che è sempre esercizio salutare per chi, senza bramarlo, accetti di essere prigioniero della verità, più che possederla.

E le vicende oggetto di questo processo lasciano intravedere una dimensione che va ben oltre i limiti accessibili ad una verità modesta qual è la verità processuale, la cui ricerca si snoda lungo un sentiero stretto, per ciò che concerne il giudizio d’appello in particolare, tra una prova di resistenza dell’apparato argomentativo che supporta le impugnate pronunce di condanna alla confutazione opposta dagli argomenti difensivi a sostegno dei proposti gravami e i limiti anche temporali di approfondimento imposti dal rispetto di regole processuali di utilizzabilità probatoria, o da regole di giudizio o di preclusioni che inevitabilmente imbrigliano il principio generale di ricerca della verità dei fatti, quando non anche quello del libero convincimento del giudice; e su tutti, naturalmente il limite del devolutum.

Sospetti mai provati

Sullo sfondo dei temi trattati in questo processo e di quelli che sono stati oggetto di una defatigante fase di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, si stagliano indagini, alcune già espletate, altre ancora in corso o che meriterebbero di essere riprese, molto più meritorie di quella che questa Corte non ha potuto o non è stata in grado di sviluppare nell’espletamento del compito demandatole.

Ci si riferisce all’indagine che ha portato alla luce la consuetudine inveterata di contatti o di legami tra organizzazioni criminali mafiose e esponenti dei Servizi segreti, che, secondo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia calabresi, raccolte nel processo sulla c.d. “ndrangheta stragista” risalirebbe ai primi anni ‘70 e alla stagione dei lucrosi sequestri a scopo di estorsione. ma si sarebbero estesi anche a trarne eversive, in relazione a rapporti con personaggi al contempo intranei alla ‘ndrangheta e vicini a o membri di organizzazioni gravitanti nell’area dell’eversione neo fascista.

E all’indagine sulla Falange Armata, sigla con cui sono stati rivendicati numerosissimi episodi delittuosi ai danni, di uomini delle istituzioni e di soggetti che operavano in particolare nel settore carcerario, compresi quelli della campagna stragista varata dai corleonesi contro lo Stato e la politica (dall’omicidio Lima al gesto dimostrativo dell’obice di mortaio fatto trovare al Giardino dei Boboli a Firenze; e poi l’attentato di via Fauro a Roma, la strage di via dei Georgofili a Firenze, i successivi attentati di Roma e Milano nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993). E, ancora, alle indagini sui c.d. mandanti occulti delle stragi, sia quelle siciliane del ‘92 che le stragi in continente dell’anno successivo.

E alla vicenda della mancata strage allo Stadio Olimpico di Roma, prevista per il 23 gennaio 1994, che, nei propositi vagheggiati da Giuseppe Graviano, avrebbe dovuto coronare una strategia destabilizzante volta a ridurre lo Stato in ginocchio e cambiare per sempre il volto e le sorti del paese.

E ci riferiamo altresì ad autentici buchi neri della storia giudiziaria del terribile biennio 1992-93, come il suicidio di Antonino Gioè (il primo degli esecutori della strage di Capaci ad essere arrestato in quel “covo” di via Ughetti dove si nascondeva, pur non essendo attinto da ordini di custodia cautelare insieme al suo sodale, Gioacchino La Barbera, arrestato qualche giorno dopo nel nord Italia: e in quello stesso stabile erano ubicati appartamenti in uso ai servizi), trovato cadavere, e appeso per le stringhe delle scarpe da ginnastica a una sbarra della cella romana di Rebibbia dove era detenuto; il duplice omicidio di Vincenzo Milazzo e della fidanzata, Antonella Bonomo che vide mobilitati in prima persona, nella deliberazione e poi nell’esecuzione del duplice delitto, lo stesso Salvatore Riina e alcuni dei capi corleonesi a lui più vicini, e che venne commesso nei giorni in cui fervevano i preparativi per la strage di via D’Amelio; il ruolo di Paolo Bellini (proveniente dalle fila dell’eversione nera, divenuto killer della ‘ndrangheta, sospettato dagli stessi mafiosi cui era in contatto, ma non solo da loro, di trescare con i Servizi e recentemente condannato in primo grado come esecutore della strage di Bologna), quale suggeritore dell’opportunità, per Cosa Nostra, di mutare target nella scelta degli obbiettivi degli attentati da realizzare, e che sarebbero stati lumeggiati già a partire dalla fine estate-autunno del ‘92. Sarebbero tutti temi meritevoli di approfondimento, mentre questa Corte non ha potuto dedicarvi nulla di più che qualche fugace cenno.

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