Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Alla piena convergenza delle predette dichiarazioni si aggiunge l’accertamento consacrato con forza di giudicato dei processi celebrati sulla strage di Capaci le cui sentenze ormai divenute irrevocabili sono state qui acquisite.

In particolare, la stessa riunione della “commissione regionale” tenutasi tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 per deliberare (rectius, ratificare il volere di Salvatore Riina) riguardo alla nuova strategia di attacco alle Istituzioni, può ritenersi storicamente e processualmente accertata all’esito del processo sulla strage di Capaci, da cui emerge anche la condanna passata in cosa giudicata di Benedetto Santapaola per quel delitto, a riprova del coinvolgimento dell’intera “cosa nostra” siciliana nella deliberazione dalla quale scaturì (anche) la strage di Capaci.

Così come può ritenersi provato che l’originario intento di Salvatore Riina, maturato già prima della pronunzia della sentenza della Corte di Cassazione all’esito del maxi processo (ma strettamente collegato alla previsione ormai certa, dopo la sostituzione del dott. Carnevale, dell’esito infausto che questo avrebbe avuto) e che Iii recepito senza alcuna opposizione all’interno dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, fu quello di scatenare la propria vendetta, uccidendo i Giudici Falcone e Borsellino, quali nemici “storici” della mafia responsabili della debacle che si preannunciava con la sopra ricordata sentenza, ed alcuni politici, iniziando da Salvo Lima, che avevano tradito le attese in essi riposte dallo stesso Riina.

E ulteriore e definitivo riscontro la Corte ritiene di poter ricavare dalle parole dello stesso Salvatore Riina, intercettate nel 2013 all’interno del carcere in cui il predetto era detenuto, [...].

Ma la Corte tiene a sottolineare, per la refluenza sull’accertamento dei fatti qui in contestazione che in quella prima fase — e, sino al giugno 1992 — non v’era alcun intendimento da parte di Riina (e, conseguentemente, da parte dei suoi sodali stante il potere assoluto dal primo esercitato e l’assenza di qualsiasi possibile opposizione interna manifestabile in occasione delle riunioni degli organismi collegiali senza incorrere nella punizione con la morte da parte del Riina medesimo) di “trattare” contropartite di sorta ovvero di subordinare l’inizio o anche soltanto la prosecuzione del programma delittuoso già comunicato nelle riunioni di cui sopra si è detto a eventuali cedimenti da parte delle Istituzioni dello Stato.

E tuttavia comincia a farsi strada l’idea che una manifestazione eclatante di potenza e ferocia distruttiva, avrebbe potuto indurre o costringere lo Stato a venire a più miti consigli, ovvero a ripiegare su un atteggiamento di non belligeranza, invece che di risoluto contrasto: come del resto era sempre stato, almeno prima che sulla scena irrompessero irriducibili antagonisti del potere mafioso (ovvero, magistrati quali Chinnici, Costa, Falcone e Borsellino e gli altrettanti validi investigatori che li affiancavano). Atteggiamento al quale, almeno nell’ottica mafiosa, poteva ricondursi l’esito di molti processi conclusasi, a differenza di quanto sarebbe, invece, avvenuto col maxiprocesso, con sentenze o che negavano addirittura l’esistenza della mafia o che, al più, si rifugiavano nella formula dubitativa dell’assoluzione per insufficienza di prove.

Una duplice finalità strategica

Le condanne fioccate all’esito del primo maxi processo evidenziavano quindi un chiaro indebolimento dell’associazione mafiosa — ed, in primis, della leadership di Salvatore Riina — per non essere più riuscita, pur con la pletora di politici o di soggetti che più o meno indirettamente facevano da tramite, ad “aggiustare” quel processo e, conseguentemente, ad ottenere un risultato che in passato e sino ad allora era stato indice della potenza intimidatrice della mafia, ma anche — e forse soprattutto puntualizza ancora la Corte — della capacità di tessere una ragnatela di rapporti tale da avviluppare a sé, in un gioco di interessi e controinteressi ed in nome del quieto vivere, una fetta non indifferente della società civile che più contava (politici, imprenditori, professionisti, magistrati e investigatori).

Salvatore Riina non poteva subire, senza reagire a suo modo, un simile indebolimento, che ne avrebbe inevitabilmente intaccato la leadership: e opta per una reazione preventiva, senza attendere la sentenza definitiva della Corte di Cassazione, che avrebbe potuto scatenare l’insoddisfazione del “popolo” di “cosa nostra” e il risentimento nei confronti del capo incontrastato che si era fatto garante di un risultato favorevole fidandosi di quei politici che sino ad allora lo avevano sempre assecondato per i propri tornaconti elettorali ed economici, quando ancora il suo potere era saldo.

Ma emerge anche l’interesse di Riina a coinvolgere i vertici di “cosa nostra” in quella strategia di attacco frontale allo Stato, che, segnando inevitabilmente un punto di non ritorno, avrebbe costretto coloro che avessero approvato quella strategia a non poter più recedere da quella decisione; e, quindi, in definitiva, avrebbe impedito che altri, che magari già segretamente vi aspiravano, avessero potuto tentare di conquistare la guida di “cosa nostra” in opposizione al “ridimensionato” Salvatore Riina.

Ecco perché già all’indomani della sentenza della Corte di Cassazione nel maxi processo (30 gennaio 1992), prima che vi fosse il tempo di riflettere sulla debacle di “cosa nostra” e, quindi, di Riina, iniziano le attività preparatorie per l’esecuzione dell’omicidio di Salvo Lima, poi effettivamente realizzato il 12 marzo 1992; seguito a breve distanza di tempo, prima dall’omicidio del M.llo Guazzelli (4 aprile) e, poi, a coronamento di quella prima fase, dalla più eclatante delle stragi per modalità esecutive e valore simbolico, quella di Capaci (23 maggio): che non a caso fu voluta e portata a termine con tecnica libanese e in Sicilia (nonostante la più agevole esecuzione a Roma ove il dott. Falcone aveva di fatto una vigilanza più attenuata), perché occorreva ricorrere ad una terrificante manifestazione di potenza, che incutendo terrore nella popolazione, e dimostrando la capacità di Cosa Nostra di colpire lo Stato nei suoi uomini-simbolo, valesse a rinsaldare e ricostituire la capacità d’intimidazione dell’organizzazione mafiosa e la forza del suo capo. E all’omicidio Lima e all’uccisione del Maresciallo Guazzelli la sentenza dedica una riflessione specifica per la loro refluenza sulla ricostruzione dei prodromi della vicenda che costituisce specifico oggetto del processo.

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