Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.


Ci sono nomi che attraversano il tempo, che ritornano sempre nella sua vita. Uomini che ha lasciato nei feudi di Prizzi e di Corleone e che ritrova adesso a Palermo. Sono mafiosi.

Come quel Vito Ciancimino, pupillo del ministro Bernardo Mattarella e legato anche a «paesani» i cui nomi Pio La Torre ha sentito pronunciare dai suoi compagni di partito. Quando l’hanno mandato alla Camera del Lavoro di Corleone, dopo la scomparsa di Placido Rizzotto. Uno si chiama Bernardo Provenzano, l’altro Salvatore Riina, il terzo Luciano Liggio. Sono ragazzi, alla fine degli Anni Quaranta. Sono i «canazzi da catena» del vecchio capo Michele Navarra. Gli ritornano in mente i volti e i racconti di tanti anni prima. Come un incubo.

Vicende che conosce bene un suo amico, uno scansato dai colleghi come un animale appestato, rinchiuso tutto il giorno in una stanza del Tribunale di Palermo. È Cesare Terranova, fa il giudice istruttore, è uno dei pochi magistrati siciliani che in quegli anni non nega l’esistenza della mafia.

È curioso, raffinato, frequenta artisti e intellettuali. Ogni tanto s’incontra anche con un maestro elementare di Racalmuto, Leonardo Sciascia. E con due giovanissimi pittori, Bruno Caruso e Renato Guttuso.

Sono nello studio del giudice Terranova. Libri, rapporti giudiziari ingialliti dal tempo, atti parlamentari, profumo di cuoio. Una parete è coperta di quadri. Uno è appeso davanti alla scrivania. Mi avvicino per guardarlo meglio, la signora lo sfiora e mi indica la data: «È del 1964. Bruno ha annunciato la morte di mio marito quindici anni prima».

Giovanna Giaconia è la vedova di Cesare Terranova. Prende lo schizzo di Bruno Caruso e lo appoggia con cura su un tavolino. C’è il viso del giudice, il naso un po’ schiacciato e alle sue spalle la faccia feroce di Luciano Liggio. Sembra un diavolo.

Racconta ancora la donna: «Il pittore aveva intuito molto tempo prima che Cesare per quell’uomo era un pericolo, che era da eliminare». Sono i primi giorni di ottobre del 1979 e Giovanna Giaconia mi fa entrare nella sua bella casa di via Rutelli, una traversa che collega via Marchese di Villabianca con via Libertà. Cesare Terranova è stato ucciso una settimana prima. «Da Luciano Liggio», dicono tutti. Il boss di Corleone sarà assolto.

Il giudice Terranova sa tutto di Corleone e della sua mafia. Ha istruito il processo per la «guerra» che sconvolge il paese dal 1958. Prima l’uccisione del patriarca Michele Navarra con quel mitragliatore Thompson, poi una settantina di omicidi in successione: tutti i fedelissimi del vecchio capo.

Il processo inizia grazie ai rapporti che quel capitano piemontese, Carlo Alberto dalla Chiesa, gli ha trasmesso da Corleone. Sulla morte del sindacalista Rizzotto, sull’ascesa criminale di Luciano Liggio, sul feudo di Stasatto che adesso sembra diventato il centro di un potere mafioso forte quasi quanto quello dei «mammasantissima» che dominano Palermo dal dopoguerra. «Stanno scendendo in città», svela il giudice Terranova a Pio La Torre.

I Corleonesi stanno arrivando a Palermo per conquistarla. Quel capitano dei carabinieri di Corleone adesso è in attesa del grado di colonnello. Dopo un girovagare fra caserme di mezza Italia – Firenze e Como, Roma e Milano – è tornato in Sicilia. Carlo Alberto dalla Chiesa è il nuovo comandante della Legione di Palermo. Gli Anni Sessanta scivolano via fra colate di cemento e immense fortune venute dal nulla, raìs della politica e sicari tutti insieme a soffocare la capitale della Sicilia.

Governa la Democrazia Cristiana dei Lima e dei Ciancimino. E governa una mafia che è sempre più protetta. Da magistrati. Da poliziotti. Da avvocati, medici, commercialisti, ingegneri, giornalisti, preti, spioni. Tutto è «a posto». È una stagione difficile per chi è fuori dai giochi, per chi sta dall’altra parte. Pio La Torre è ancora consigliere comunale e anche deputato al Parlamento siciliano, a Palazzo dei Normanni.

Nel 1963 diventa segretario regionale del Pci. Sono passati solo quindici anni da quando ha lasciato la sua casa di Altarello di Baida. Per quella tessera del partito che ha in tasca. Nel 1967 ci sono le elezioni regionali in Sicilia. Vanno male per i comunisti. Sul banco degli imputati per la sconfitta, c’è Pio La Torre: da segretario regionale viene retrocesso a segretario provinciale. È ferito ma ubbidisce.

Lo sostituisce Emanuele Macaluso, che torna per la seconda volta in Sicilia a dirigere il partito. Resta solo un anno in Federazione, Pio La Torre. A Palermo arriva Achille Occhetto e lui è chiamato «ad un nuovo incarico» alla Direzione del Pci, a Roma. Alle politiche del 1972 viene eletto alla Camera con 42.325 voti, nella circoscrizione della Sicilia occidentale.

Dopo il latifondo e il carcere, dopo Palermo e le interminabili sedute in consiglio comunale con i mafiosi accanto, comincia per Pio La Torre una terza vita. A Roma. Con la sua famiglia. Con Giuseppina. Con Filippo. E con Franco, l’altro figlio nato nel 1956. Roma sembra lontana da Palermo. Lontanissima dai campi arsi della Sicilia del feudo.

© Riproduzione riservata