Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.


La prima scorta gliela impongono alla fine di agosto del 1980.

Agli inizi del mese, il 6, il procuratore capo della repubblica di Palermo Gaetano Costa passeggia da solo come ogni pomeriggio fra un fioraio e la bancarella di libri nella centralissima via Cavour. Un killer gli va incontro e l’ammazza.

Una settimana prima, in solitudine, Costa ha firmato una cinquantina di ordini di cattura proprio contro Rosario Spatola e i boss dell’Uditore. Alcuni dei suoi sostituti si rifiutano di sottoscrivere il provvedimento. Lui ci mette la firma e ci rimette la pelle.

Poi le auto di scorta diventano tre. Quando l’indagine su Rosario Spatola si intreccia con quella sulla fuga in Sicilia del banchiere Michele Sindona, intorno a un giudice fino a qualche mese prima sconosciuto c’è un apparato di protezione imponente, una macchina da guerra.

Due agenti lo precedono nella sua stanza, altri tre lo seguono come un’ombra. Mitragliette automatiche, giubbotti antiproiettile, sirene, lampeggianti. Un elicottero si alza in volo quando il corteo blindato si muove fino alla piazza del Tribunale.

Il giudice istruttore della sesta sezione penale del Tribunale di Palermo diventa il primo bersaglio della mafia siciliana. Di notte, in via Notarbartolo, due poliziotti stanno di guardia anche dietro la porta di casa sua. Giovanni Falcone non dorme mai a sonno pieno.

Qualcuno comincia dire che è uno «sceriffo», un sbirro travestito da magistrato.

Il foglio cittadino, Il Giornale di Sicilia, non c’è mattina che non gli faccia trovare una sorpresa in prima pagina. Un editoriale su come si fa «veramente» il giudice, il commento di un onorevole della Regione sull’«ampollosità di certe messinscena dimostrative», l’intervento di un esimio giurista sulle «comiche figure di strani giudici che popolano il proscenio giudiziario dei nostri tempi».

È un attacco permanente a Falcone e alle sue inchieste. Lui non replica mai. Incassa. Tace. Ingoia veleno. Per tre anni vive come un recluso.

Tutto per colpa di quell’indagine sull’ex ambulante che ha allungato il latte con l’acqua.

Per Falcone, ormai è vietato anche andare dal barbiere. Al cinema non si può più, bisogna liberare tre file di poltrone davanti e tre dietro. Il ristorante nemmeno. Ci prova una volta. Una sera entra in una trattoria sul mare di Mondello, si siede in un angolo con un amico e i vicini cambiano subito tavolo.

Una vita “in trincea”

Anche nella sua casa di via Notarbartolo è un inferno. L’amministratore dello stabile dove abita gli scrive: «Decliniamo ogni responsabilità per i danni che potrebbero essere recati alle parti comuni dell’edificio».

Un giorno Falcone sta per infilarsi nel portone e sente dire a un passante: «Certo che per essere protetto in questo modo deve avere fatto qualcosa di veramente malvagio».

Ai palermitani disturbati dal clamore delle scorte e dalle sue indagini, dà voce un’«onesta cittadina» che invia una lettera a Il Giornale di Sicilia. Il quotidiano pubblica volentieri e con gran risalto la lettera della signora Patrizia Santoro:

Regolarmente tutti i giorni (non c’è sabato o domenica che tenga), al mattino, nel primissimo pomeriggio e alla sera (senza limiti di orario) vengo letteralmente «assillata» da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora, mi domando, è mai possibile che non si possa,

eventualmente, riposare un poco nell’intervallo del lavoro e, quanto meno, seguire un programma televisivo in pace, dato che, pure con le finestre chiuse, il rumore della sirene è molto forte?

Non è che questi «egregi signori» potrebbero essere piazzati tutti insieme in villette alla periferia della città, in modo tale che sia tutelata la tranquillità di noi cittadini- lavoratori e l’incolumità di noi tutti, che nel caso di un attentato siamo regolarmente coinvolti senza ragione (vedi strage Chinnici)?

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