Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alle persone meno note uccise dalla mafia e il cui numero cresce di anno in anno. Dal 1961 si contano circa 1031 vittime innocenti.

A Niscemi non c’era la pioggia a dare tregua al caldo torrido, a Niscemi piovevano prima proiettili, poi lacrime, e poi silenzi assordanti.

Così è stato la sera del 27 agosto del 1987, una pioggia di proiettili investe i corpi di Giuseppe Cutruneo, 8 anni e Rosario Montalto, 11 anni. Per il primo la morte è immediata, Rosario resisterà altre 56 ore prima di lasciarsi andare. La voce di due bambini che giocano si mischia al boato dei proiettili e poi alle urla di Rosario, alla voce del fratello maggiore di Giuseppe, Antonino, che chiama la mamma mentre prova ad afferrare il fratellino “mamma non ce la faccio, mi scivola”, il corpo coperto di sangue.

Si mischia il sangue sul marciapiede, si mischiano i rumori e quello che pareva essere il “solito mortaretto” si rivela una strage. Il rumore degli spari non si ferma, prosegue a ritmo continuato con le due auto da cui la scarica di calibro 38 è partita, una Ritmo e un’Alfetta che continuano ad inseguirsi per le vie del centro di Niscemi. Alla guida della Ritmo – secondo la ricostruzione giornalistica dell'epoca – ci sono Salvatore Caniglia, 28 anni, e Bartolo Giudice, 32 anni, due boss emergenti di Niscemi desiderosi di farsi strada nel giro della droga, rientrati da poco dalla Germania, con una certa presunzione a detta di altri.

Quella sera avevano un appuntamento in piazza, tra una granita ed un caffè per discutere dei loro piani con chi si rivelerà poi essere gli aguzzini di entrambi. La discussione infatti si accende, i due capiscono di doversela filare e scappano con l’auto, ma chi era in loro compagnia se lo aspettava e sale sull’Alfetta rubata qualche giorno prima, alla cui guida c’è un complice.

Così iniziano gli spari, la Ritmo risponde a tono. Giuseppe e Rosario interrompono i giochi per capire cosa succede, non fanno in tempo. Dalle auto nessuno si accorge dei proiettili piantati nei corpi dei bambini. La corsa continua fino a quando la Ritmo si ferma, Caniglia e Giudice proseguono a piedi, corrono ma gli spari li raggiungono comunque.

I due sicari credono di lasciarli senza vita a terra, ma loro respirano ancora; Caniglia riesce a farsi strada fino ad un garage, sopravvive sei ore, lo troveranno morto all’ombra di un camion la mattina successiva. Giudice viene raggiunto dai proiettili nel collo, nelle spalle, nei polmoni e nell’anca; non è morto, si salverà. Ancora una volta spari che si mischiano ad urla, al sangue con la polvere delle strade, all’assordante silenzio della notte a Niscemi.

Nell’ospedale di Caltagirone la vita di Rosario è appesa ad un filo sottilissimo, impercettibile, e nemmeno il vociare dei dottori o il rumore dei macchinari attorno a lui riesce a coprire quello del suo dolore e, mentre tenta disperatamente di staccarsi il sordino della flebo del naso, non sa che in chiesa tra i singhiozzi di un paese intero, sfilano di seguito due bare, quella dell’amico Giuseppe e quella della sua mamma, colta da un malore il giorno prima.

Rosario li raggiungerà da solo qualche giorno dopo, sempre accompagnato dal rumore dei singhiozzi, da quello delle urla, di rantoli soffocati, dagli spari in lontananza, sotto il sole cocente, perché a Niscemi la pioggia d’estate non c’è mai, a Niscemi non si conosce tregua.

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