La manutenzione ha a che fare con il pericolo. Se non si fa manutenzione dei fiumi o dei ponti, ad esempio, si mette in pericolo la vita delle persone che vivono nei pressi di quel fiume o transitano su quel ponte.

Ma anche fare manutenzione è pericoloso, come dimostra il recente caso della strage di Brandizzo, in cui cinque operai che stavano svolgendo attività manutentiva su un binario ferroviario sono stati travolti da un treno. Vorremmo ragionare sulle pratiche e sulle culture della manutenzione attuali proprio a partire da questo tragico episodio di cronaca.

Stragi di manutenzione

La strage di Brandizzo è una strage di manutenzione, che si aggiunge a molte altre precedenti che hanno provocato una lunga sequela di morti: operai che lavorano sulle strade, tecnici di rete che riparano infrastrutture telefoniche o internet, macchinisti, operatori nei settori più diversi.

Queste stragi hanno spesso un minimo comune denominatore. Avvengono nell’ombra, talvolta letteralmente, perché molti interventi sono svolti di notte, quando le reti sono meno sollecitate. Le attività di manutenzione, infatti, si svolgono quando il cosiddetto fattore di carico della rete è basso, quando cioè si pensa che gli utenti telefonino meno, viaggino meno, quando i convogli che circolano sono pochi o del tutto assenti.

Negli ultimi decenni, per ripristinare i guasti al più presto (ed evitare le proteste degli utilizzatori di quei servizi), questi interventi sono svolti nella massima urgenza e spesso anche al risparmio, appaltati a società private da parte di grandi aziende come Reti ferroviarie italiane (Rfi), che a loro volta si sono viste tagliare drasticamente il personale.

La manutenzione è forse la pratica più rilevante per mantenere le infrastrutture efficienti e sicure, ma ha due difetti principali: costa molto e non fa notizia. È meno visibile e meno spendibile mediaticamente, ad esempio, dell’inaugurazione di nuove linee. E questo problema coinvolge la dimensione politica della manutenzione.

Velocità e lentezza

Nel fatto di Brandizzo ci sono almeno due linee di comunicazione coinvolte: una che non si vuole interrompere (la linea ferroviaria) e una che funziona regolarmente, ma che alla fine non riesce a evitare la strage (la linea telefonica). Si noti che la funzione del telefono è quella di integrare e velocizzare le comunicazioni che avvengono su una terza linea, quella dei fonogrammi, considerata “troppo lenta” ma che i responsabili di Rfi devono comunque utilizzare per segnalare l’interruzione di rete. I temi della lentezza e della velocità sono proprio quelli che ci interessano. La manutenzione, almeno quella ordinaria, è un’attività per sua natura “lenta”, è una forma di cura verso le infrastrutture e le cose che si svolge continuativamente nel corso del tempo. Invece, nelle culture manutentive contemporanee, è spesso svolta di fretta perché interrompe o rallenta il normale funzionamento delle reti e quindi crea disagi.

Questo modo di lavorare, questa catena di comando implicita, è più forte e più autorevole persino di quella esplicita (la funzionaria che al telefono ripete inutilmente che il nulla osta per l’inizio dei lavori non è ancora arrivato), ed entrambe obbediscono al paradigma della velocità. Velocità che non consente di interrompere la linea, né attendere il via libera ai lavori, quando una maggiore lentezza avrebbe potuto evitare il disastro. Chi come noi studia la storia della manutenzione cerca sempre di individuare alcuni elementi comuni agli atti manutentivi: qual è la centrale che dà l’ordine di manutenere un’infrastruttura? Qual è la catena di comando? Quali sono gli ordini?

Ma soprattutto, che cosa si vuole comunicare? La manutenzione infatti è (anche) un atto comunicativo. Che cos’è una cultura della manutenzione? È il modo con il quale una società affronta il problema dell’obsolescenza, dell’invecchiamento degli oggetti e delle infrastrutture di cui si circonda. Oggi siamo in un contesto nel quale, sulla base della nostra cultura della manutenzione e del consumo, è lecito gettare un oggetto per sostituirlo con un altro in teoria più efficiente o semplicemente più nuovo.

Ma, quando si passa alle infrastrutture, le cose cambiano. Non si possono buttare via e rimpiazzare perché hanno costi elevati e tempi di realizzazione lunghi. Nonostante ciò, di manutenzione si discute poco. Tutti noi ci indigniamo nei giorni immediatamente successivi ai grandi disastri: pensiamo solo, negli ultimi anni, al disastro ferroviario di Pioltello (2018), alla caduta del ponte Morandi a Genova (2018), alla funivia del Mottarone (2021), appunto alla strage di Brandizzo di pochi giorni fa. Passati questi momenti drammatici e mediaticamente rilevanti, il dibattito si oscura così come le attività manutentive.

Possiamo allora proporre una diversa e “nuova” cultura della manutenzione? Avanziamo tre proposte. In primo luogo, una nuova cultura della manutenzione non può escludere a prescindere la lentezza. Proponiamo insomma una slow maintenance che conceda agli operatori il tempo necessario per interventi efficienti e sicuri. Sappiamo come questa non sia cosa facile da accettare né per i soggetti che operano sulle reti, né per chi quelle reti utilizza, cioè tutti noi. Si tratta di un problema specificamente politico, nel senso più ampio del termine: la politica ha abbracciato la velocità come ideologia e come unico mezzo per manifestare la modernità e l’efficienza di un paese. Ma quale efficienza dimostra un paese nell’assassinare i suoi manutentori (e le sue lavoratrici e i suoi lavoratori)?

Un nuovo paradigma della lentezza ha un secondo corollario: una cultura della manutenzione efficiente deve contemplare anche il lungo periodo, in termini di lavori, di investimenti, di visioni. Ci vogliono decenni per restaurare grandi infrastrutture, è un’attività continua che politicamente non paga:

meglio aprire un nuovo ponte che colleghi Calabria e Sicilia piuttosto che manutenere strade ferrate e autostrade nelle due regioni, per esempio. La manutenzione richiede quindi una visione di lungo periodo, che va ben oltre le legislature e l’alternanza dei partiti.

Una terza e ultima proposta per una nuova cultura della manutenzione è quella di agire sull’agenda dei media e, di conseguenza, sull’attenzione dell’opinione pubblica: come si è detto, ci si indigna giustamente per i morti da manutenzione, ma sarebbe utile scandalizzarsi o quantomeno tenere sempre sotto controllo le pratiche manutentive deficitarie, soprattutto quando sono gli stessi operai e tecnici a segnalarle, rischiando spesso sanzioni o licenziamenti.

La manutenzione al momento non fa notizia ma, in congiunzione con la svolta ecologista suggerita dal cambiamento climatico, potrebbe entrare stabilmente nell’agenda dei media in un mondo che deve andare sempre più verso il paradigma della sostenibilità, della riparazione invece della sostituzione. Della manutenzione, insomma

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