Era un ex primario di urologia, Carlo Vicentini, che ad aprile ha sterminato la sua famiglia, prima di togliersi la vita. Era un poliziotto Massimo Carpineti, suicida, dopo aver sparato e ucciso la collega Pierpaola Romano. Panettiere, Taulant Malaj, che ha ucciso la moglie e Massimo De Santis, sospettava che i due avessero una relazione. È uno studente di buona famiglia Filippo Turetta, che ha ucciso Giulia Cecchettin.

Pare non esserci nessuna logica nei femminicidi legata all’età, all’estrazione sociale, all’istruzione, al luogo di nascita degli omicida o all’appartenenza politica a certe idee. Neppure nei paesi nordici, primi in classifica per uguaglianza di genere: è il cosiddetto “paradosso nordico”, laddove le donne fanno passi avanti, il contraccolpo è maggiore, la forza maschile non vuole che nulla cambi. In questi delitti l’unico elemento costante, oltre al sesso di chi commette il reato e della vittima, è la mentalità patriarcale e maschilista alla base del gesto.

Identikit di un femminicida

Ci sono guardie giurate, impiegati, studenti, imprenditori, disoccupati, operai. E poi tanti pensionati che si trascinano con sé, spesso in un omicidio-suicidio, le mogli anziane e malate (sono circa un terzo del totale). Il loro essere malate o inferme provoca una certa tolleranza altruistica per questi casi da parte di una giustizia, che comunque deve confrontarsi con l’età degli imputati. E quindi si tende a non indagare, senza scavare nella vita delle vittime, spesso reduci da anni di abusi e maltrattamenti, senza che questi siano mai emersi, nascosti dal pudore di un tempo sempre più lontano negli anni, ma vivo purtroppo ancora oggi.

Non c’è differenza tra i “bravi” e “cattivi” ragazzi. Turetta ha confessato l’omicidio di Giulia Cecchettin dicendo «Ho ucciso la mia fidanzata», ma Giulia non lo è era più, aveva rotto con lui ad agosto; lui no invece, vive in quella concezione patriarcale comune a troppi uomini.

I numeri aiutano, ma non sono sufficienti a descrivere un fenomeno che non trova neppure una definizione comune tra gli stati membri dell’Unione Europea o tra gli istituti di ricerca che dovrebbero raccogliere i dati. Come ogni anno l’Istat in relazione al 25 novembre, la Giornata contro la violenza maschile sulle donne, presenta le statistiche di genere e sugli stereotipi dell’anno. I numeri confermano la trasversalità del fenomeno, ma qualche filo rosso è visibile: «Esistono dei fattori di aumento del rischio. Ad esempio chi ha subito violenza ha cinque volte in più probabilità di attuarla a sua volta», spiega Rossella Ghigi, docente e sociologa, «Così come chi assiste a violenza, e qui si parla di donne, ha probabilità maggiori di finire in una situazione di violenza. Queste sono tra le pochissime statistiche che tengono».

Sociologi, psicologi, forze dell’ordine da decenni cercano di profilare il femminicida, ma questo profilo di per sé non esiste. «Alla base oltre alla violenza e all’aggressività dei soggetti, ai problemi di gestione della rabbia, c’è una mancata socializzazione al dialogo con le proprie emozioni e che riguarda in particolare gli uomini», continua Ghigi.

A questo si aggiunge, dall’altra parte, il sentirsi in colpa per le emozioni altrui, per gli stati d’animo del partner, così come si apprende dolorosamente negli audio di Giulia Cecchettin alle amiche, preoccupata che l’ex potesse farsi del male: «Vorrei non avere più contatti con lui, ma allo stesso tempo mi dice che pensa solo ad ammazzarsi...Il fatto che possa essere colpa mia, mi uccide». Giulia ostaggio di una situazione da cui non sa come uscire. «Può esserci una liberazione anche per gli uomini, non si tratta solo di cedere il potere, che comunque costa fatica psichica, ma vivere con serenità la libertà dell’altra», aggiunge Ghigi.

Siamo a quota 106 femminicidi per il 2023, indica l’ultimo report del ministero dell’Interno aggiornato al 19 novembre: 106 donne uccise, 87 in ambito familiare e affettivo, 55 da partner o ex partner. Un trend costante: nonostante negli ultimi decenni gli omicidi siano in costante diminuzione, quelli nei confronti delle donne non accennano a diminuire. Sono rimasti stabili anche durante la pandemia (106 nel 2020, 104 nel 2021), quando tutti i reati avevano registrato forti cali.

Malati di possesso

Ma la parola femminicidio indica soprattutto il movente. L’uccisione delle donne nasce e cresce in un ambiente di possesso, oppressione e controllo. Matura in una società che le vuole relegate a ruoli di subordine. Così i momenti che precedono un femminicidio sono sempre quelli della rottura: donne che scelgono di non sottostare più ai loro carnefici. Non esiste un reato di femmicidio, anche se le pene sono più severe se l’omicidio è accompagnato da una violenza sessuale o se è commesso da una persona vicina alla vittima. Per quanto riguarda le donne questa percentuale supera l’80 per cento, mentre per gli uomini solo il 4 per cento. Le donne con i loro assassini hanno legami di vario tipo, e questo avviene maggiormente che in passato.

Sono ancora poche le donne che denunciano la violenza subita, si calcola una su dieci, lo stesso vale per gli stupri e le violenze sessuali in generale. Troppa la paura, di ulteriore violenza, di non essere credute. Anche perché metà delle denunce viene archiviata, un numero enorme, sottolineato più volte anche dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo: i giudici più volte hanno condannato l’Italia per la facilità con cui non dà seguito ai casi di violenza domestica (l’ultima a settembre 2023). Lo denunciano pure le decine di commenti di tante donne sotto al post su Instagram della Polizia di Stato in ricordo di Giulia: raccontano di non essere state ascoltate, di essere state rimandate a casa, invece che supportate.

Quelle che vanno avanti a processo con fatica arrivano a condanna, nel frattempo trascorrono anni in cui le donne che denunciano sono costrette a vivere senza certezze di ritenersi salve e immuni a vendette. Per questo spesso i casi di femminicidio si consumano in situazioni già denunciate alla giustizia, in cui l’uomo era già stato segnalato alle forze dell’ordine, ammonito, ai domiciliari, con il braccialetto elettronico. E poi servono fondi: i centri antiviolenza, le case rifugio; serve protezione per quante denunciano.

Tra qualche giorno l’uccisione di Giulia e il tema dei femminicidi passeranno in secondo piano. Ma forse in questi picchi di attenzione, segnati dalla morte di un’altra donna, qualcosa resta: la condanna sociale che si addentra nella quotidianità, lì dove germoglia la violenza, nelle coscienze e nei comportamenti di molti.

© Riproduzione riservata