L’ossessiva gratificazione è un impulso irrefrenabile che raggira il cervello e lo imprigiona, spesso senza apparente via d’uscita. È la dipendenza, un vortice che offusca i sogni e il benessere psicologico e sociale. Lo stesso che sta accerchiando il calcio italiano in uno scandalo che rischia di diventare un terremoto.

Fagioli, Zaniolo e Tonali sono talenti, ma anche il futuro che rischia di svanire, in attesa dell’esito delle indagini. Sono casi illustri, certo, ma non isolati, perché la ludopatia è un fenomeno dalle radici molto più profonde. Il ministro dello Sport, Andrea Abodi, e il presidente della Figc, Gabriele Gravina, l’hanno definita una piaga sociale non solo sportiva, e i dati danno loro ragione.

Il circolo vizioso

In Italia sono più di 1,3 milioni le persone che soffrono di disturbo da gioco d’azzardo (Dga) e meno del 10 per cento ha iniziato un percorso di cura. La situazione si è aggravata negli ultimi anni: molti hanno impiegato i loro soldi sul betting online durante l’emergenza pandemica, ma anche la crisi economica e un’offerta più vasta hanno portato i casi di dipendenza a crescere esponenzialmente.

Alcune categorie sono più a rischio: i giovani, i fumatori e chi consuma alcol abitualmente, per esempio. Le conseguenze sono pericolose, perché il gioco patologico conduce a stati ricorrenti di ansia, depressione, improduttività, insonnia e collera. La vita si logora e le abitudini si adattano ai tempi e ai luoghi delle puntate con ripetitività angosciante.

A quel punto è già tardi per la volontà: il cervello è in balìa di stimoli che attivano le vie della gratificazione e generano un piacere immediato, rilasciando endorfine e dopamina. Non dura molto, però, e si torna a scommettere. Subentra il senso di riconquista, il desiderio ancora più forte di recuperare le somme perse e la necessità di un guadagno, ma succede l’opposto e il circolo vizioso si rafforza.

Curare la febbre

Per i meccanismi che innesca, la ludopatia è una dipendenza psicologica, ma anche un business fruttuoso, che impegna 150mila lavoratori. Nel 2022, lo stato ha incassato 11 miliardi portando il gaming a valere circa l’1 per cento del Pil.

Non si baratta con la vita, e la politica si è già mossa per arginare il fenomeno: le Unità sanitarie locali, il privato sociale e le pubbliche amministrazioni hanno avviato percorsi di formazione, prevenzione e riabilitazione. Non basta. Sarebbe utile estendere il Registro unico di esclusione agli esercenti fisici permettendo di distinguere chi soffre di dipendenza e gli ex giocatori dal resto della platea, come nel resto d’Europa.

Tra le difficoltà ci sono anche l’identificazione dei casi, superare la negazione convinta dei profili problematici e indirizzarli alle cure. Per questo, servirebbe un sistema di eteroesclusione, in cui un familiare segnala chi abusa e gli impedisce di giocare.

E poi interviene la sanità: lo specialista analizza i comportamenti e le emozioni del paziente, comprende i fattori psicologici del craving, cerca di controllarlo e imposta un percorso di riabilitazione personalizzato che si basa sulla terapia cognitivo comportamentale. I farmaci spesso sono uno strumento essenziale, come i gruppi di auto-aiuto e le comunità terapeutiche. Per evitare ricadute, si può richiamare l’autocontrollo con input pratici: per esempio, annotare le cifre perse è un deterrente efficace. Il piano relazionale non va sottovalutato: il ludopatico allontana anche gli affetti più cari in nome del gioco e il trattamento deve mirare al ripristino sociale dell’individuo.

Dostoevskij, che la dipendenza l’ha vissuta e raccontata, scriveva ne Il giocatore che il distacco riguarda la vita, gli interessi personali, i doveri, gli amici, qualsiasi scopo e anche i ricordi. L’oblio sociale, quindi, non è utopia e implica che la soluzione debba essere una priorità collettiva, poi la cura del singolo. L’ennesimo scandalo del nostro calcio ci offre paradossalmente un’opportunità come comunità: intervenire e restituire la realtà a chi l’ha persa per la febbre dell’azzardo.

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