La marcia della nazionale di Roberto Mancini si fa inarrestabile e a questo punto anche gli scettici di professione avranno da farsene una ragione. Nella serata di ieri, sul campo dell’Allianz Arena di Monaco di Baviera, è stato battuto il Belgio primo del ranking Fifa, una delle squadre maggiormente accreditate per la vittoria finale.

Dunque la tentazione di sminuire il cammino degli azzurri guardando al valore degli avversari può essere serenamente riposta nel cassetto. L’Italia è quella che più di tutte ha meritato il posto in semifinale e da qui in poi può puntare al successo finale con legittime aspirazioni. Né il giudizio potrà essere inficiato da ciò che accadrà da qui in poi.

Questa premessa serve a dire che i posti sul carro della nazionale di Roberto Mancini sono esauriti da tempo e per i ritardatari non resta che seguire il corteo con passo accelerato. Se ne faranno una ragione e comunque, se festa sarà, lo sarà per tutti.

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse

Una nazionale anomala

Noi di Domani possiamo fare serenamente queste valutazioni perché su quel carro non ci siamo mai saliti. E non per sfiducia o professione di diffidenza. Piuttosto, perché da giornalisti riteniamo che non si debba stare su carro alcuno. Anche quando c’è di mezzo la nazionale.

Svolgiamo il complicato mestiere di informare e analizzare. Cosa ardua quando si parla di calcio, materia che così facilmente fa perdere il lume. E che tanto più lo fa perdere se viene associata all’idea di patria pallonara. Grazie, ma preferiamo rimanere fuori dalla mischia. Anche perché da fuori la mischia è possibile osservare meglio i meriti di questa squadra e del suo commissario tecnico, senza lasciarsi trascinare dall’enfasi e dai vocativi.

Soprattutto è possibile osservarne il carattere anomalo rispetto al movimento calcistico nazionale di cui è espressione. Tanto da spingere a chiedersi cosa c’entri questa squadra azzurra col nostro calcio, così pesantemente in declino da anni e sotto tutti i profili: tecnico, agonistico, economico. Da dove salta fuori una squadra così forte e diversa?

La tentazione di strumentalizzare

A proposito di carri, ci aspettiamo che i presidenti dei club di Serie A si apprestino a rivendicare il merito dei successi di questa nazionale e a farne argomento per legittimare le richieste di aiuti di stato. Si sono già fatti avanti tramite comunicato pubblicato sul sito ufficiale della Lega di Serie A e datato 1 luglio.

Nel testo si chiede un incontro urgente col premier Mario Draghi, col ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti e con la sottosegretaria con delega allo Sport, Valentina Vezzali. I presidenti lamentano un danno da pandemia quantificato in 1,2 miliardi di euro e auspicano, oltre al ritorno del pubblico sugli spalti, «idonee soluzioni». E nessuno fra loro che sia disposto a dire quanta parte di quegli 1,2 miliardi di euro se ne sia andata in salari fuori mercato, o in commissioni agli agenti (magari pagate all’estero) per attività di intermediazione che comodamente avrebbero potuto essere svolte dai direttori sportivi, o in plusvalenze incrociate che generano zero denaro in cassa e caricano all’inverosimile il conto degli ammortamenti.

Questi presidenti saranno pronti a rivendicare i successi della nazionale di Roberto Mancini come se fossero la prova che la loro industria funziona, che genera benessere sentimentale ed emotivo, che contribuisce a dare lustro all’immagine internazionale del paese. Nulla di più distante dalla realtà. Perché questa nazionale è in nessun modo figlia del campionato italiano di Serie A. Quest’ultimo ormai forma sempre meno calciatori italiani, come dimostrato ancora una volta ieri sera dal fatto che il commissario tecnico abbia dovuto utilizzare tre naturalizzati (Jorginho, Toloi e Emerson).

Un campionato fatto di club che preferiscono fare incetta di mezze figure sui mercati esteri e che stanno progressivamente sostituendo la formazione dei giovani talenti con lo scouting (che fra l’altro significa incrementare il numero di giovani provenienti dall’estero). Inoltre si parla di quegli stessi club che vedono le rappresentative nazionali, compresa quella azzurra, come un peso per le loro attività anziché un valore. E potreste scommettere che a festa finita le cose torneranno così, come se questa parentesi azzurra non fosse mai esistita.

Rispetto a questi signori che hanno portato il calcio italiano a un centimetro dal baratro, la nazionale di Roberto Mancini deve fare una sola cosa: tenerli a distanza. Non è loro espressione, non ha nulla a che spartire. La sua crescita è avvenuta “malgrado loro”, non “grazie a loro”. È una felice anomalia e tale deve rimanere.

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