Tra qualche tempo, camminando lungo le corsie del nostro supermercato di fiducia, troveremo uno scaffale che prima non c’era: quello interamente dedicato a prodotti contenenti farina di insetti.

Quella degli scaffali dedicati, dei corner adibiti a tipologie specifiche di prodotti, è una pratica usata spesso dai supermercati per distinguere un prodotto dall’altro, evidenziarne le differenze. Capita per i prodotti senza glutine, ad esempio. Alcune catene hanno scaffalature dedicate ai prodotti del commercio equo e solidale.

Vista in quest’ottica, i quattro provvedimenti firmati dal ministro della Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida, in cui vengono riportate precise indicazioni su come trattare gli alimenti contenenti farine di insetti, sembrano una scelta neutra, una delle tante su cui i ministri appongono la loro firma senza realmente sapere di cosa si tratti.

Eppure questi provvedimenti dicono molto e non hanno nulla di neutro.

In difesa di una lobby

Il ministro Lollobrigida ha rivendicato questa decisione con la necessità di «dare informazioni chiare e rafforzare la capacità di discernimento delle persone rispetto al tema fondamentale dell’alimentazione», sul mettere cioè tutti noi nelle condizioni di fare una scelta consapevole. Nulla da eccepire su questo, ma siamo sicuri sia questa la ragione vera?

A me pare, al contrario, che questa ghettizzazione delle farine di insetti in appositi scaffali abbia l’obiettivo di veicolare il messaggio che questi prodotti possano causare allergie (non si capisce quali) e far male. Sostanzialmente l’intento è fermare l’espansione del settore, renderlo poco concorrenziale, relegare questi prodotti a scaffali polverosi, sbattuti in qualche angolo sperduto del supermercato.

Ma c’è di più. Basta guardare ad altre due misure che l’attuale maggioranza di governo ha messo in piedi. La prima riguarda un disegno di legge (ne scrive Vitalba Azzollini in queste pagine) che vuole vietare l’utilizzo di denominazioni tipo “hamburger di seitan” o “latte di soia” per non «mettere in inganno il consumatore». La seconda riguarda la crociata contro la carne sintetica. Se mettiamo in fila questi tre provvedimenti, si capisce dunque che il vero obiettivo che non è tanto quello di mettere i consumatori nelle condizioni di fare scelte consapevoli, quanto, al contrario, quello di rafforzare il settore della carne, non ostacolarne il cammino, la crescita costante.

Che sia la farina di insetti o la denominazione di un prodotto vegetale con un nome che ammicca alla carne, o che sia carne coltivata, non importa.

Bisogna preservare l’industria della carne.

Discernimento della carne

E poco importa che gli allevamenti intensivi, con le loro emissioni, abbiano una responsabilità enorme nella crisi climatica che stiamo vivendo. Le catene alimentari sono responsabile di una percentuale che va dal 21 al 37 per cento delle emissioni globali di gas serra, oltre la metà arriva dagli allevamenti.

Quello della carne, nelle intenzioni di questo governo, è un settore da premiare, ne va dell’“identità della nazione”.

Se così è, provo a rilanciare una proposta che, con Terra!, abbiamo fatto più volte: caro ministro, perché non emana un decreto nel quale rende obbligatorio inserire, sulle confezioni di carne, la dicitura «da allevamento intensivo»?

Del resto accade già così per il pesce dove viene specificato se è “allevato” o “pescato”. Accade con le uova. Se è davvero così attento alla scelta consapevole dei cittadini, perché non dare la «possibilità di discernimento» anche sulla carne? In questo modo, la prossima volta che andremo a fare la spesa, accanto agli scaffali con i prodotti a base di farina di insetti, troveremo anche quelli con il «prosciutto da allevamento intensivo» o «allevato al pascolo». Sono certo che di fronte a un’etichetta così chiara, il consumatore potrà davvero esercitare una scelta consapevole.

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