«Quattro anni di abusi. Due anni e mezzo di molestie legali. Tutto ciò è stato concepito apposta per annientarmi». Carole Cadwalladr è una giornalista e non ha mai avuto paura di sfidare il potere. Ha scoperchiato lo scandalo Cambridge Analytica, poi nel 2019 è salita su un palco – l’occasione erano i “Ted Talk” – e ha fatto un discorso che è stato visualizzato da milioni di persone. Mentre parlava del ruolo di Facebook nella Brexit, e di come rappresenti una minaccia per la democrazia, Cadwalladr ha sfidato apertamente, uno per uno, Mark Zuckerberg e gli altri «gods of Silicon Valley», l’olimpo di Big Tech.

«La democrazia non va data per scontata, spetta a noi difenderla», è il succo di quel suo speech. I fatti le stanno dando ragione: Cadwalladr è vittima di quella che oggi va di moda chiamare Slapp, acronimo che suona come «sberla in faccia» e che sta per “strategic lawsuit against public participation”. Sono azioni legali vessatorie che hanno lo scopo di intimitire e zittire le voci critiche, o per dirla in una parola: intimidazioni.

Le storie dimenticate dei cronisti silenziati dalle richieste danni

Se adesso il termine va di moda una ragione c’è: lo squilibrio tra chi dissente e chi detiene il potere aumenta, mentre la tecnica dello Slapp diventa sempre più collaudata. Londra è la capitale delle «sberle» ai giornalisti, e nel caso di Cadwalladr a intimidirla, con un’accusa di diffamazione che si è trasformata in odissea legale, è il grande finanziatore di Brexit, il miliardario Arron Banks.

I protagonisti e Brexit

Cadwalladr scrive da decenni: romanzi, poi articoli, prima per testate come il Daily Telegraph e poi per il Guardian e il magazine della domenica, l’Observer. Ma c’è un punto preciso della sua storia professionale che scatena prima la notorietà, poi le “sberle”. La svolta è Brexit.

Come lei stessa racconta, Cadwalladr viene spedita in Galles, a Ebbw Vale, per cercare di capire perché gli abitanti di questa che è stata una roccaforte di sinistra abbiano votato per uscire dall’Unione europea. Il panorama che le si staglia davanti è simile ad altri bastioni del Leave: un’area deindustrializzata, dove lo scontento sociale viene indirizzato contro l’Europa nonostante gli investimenti Ue nell’area, e contro i migranti per quanto nella cittadina si contino sulle dita di una mano. Cadwalladr realizza così che le paure di chi vota “Leave” sono fomentate da un «ecosistema di fake news di destra» e che Facebook è il luogo dove ciò si realizza, sfuggendo a ogni controllo democratico.

Seguendo questa pista, si butta nel giornalismo investigativo. Dopo più di un anno di lavoro e i primi scoop sul tema, convince il whistleblower Christopher Wylie a venire allo scoperto: nel 2018 deflagra lo scandalo Cambridge Analytica. Questa società di consulenza britannica aveva fatto scorpacciata di dati degli utenti Facebook, senza il loro consenso, e ne costruiva identikit psicologici; questa conoscenza dettagliata delle loro paure e inclinazioni veniva utilizzata per il marketing politico. A beneficiarne sono state, tra le altre, la campagna per Donald Trump e quella per Brexit.

Il multimilionario Arron Banks, lo stesso uomo d’affari che ha poi costretto Cadwalladr alla estenuante battaglia giudiziaria, è il gran finanziatore del Leave. A dire il vero la sua attività di mecenate della estrema destra populista comincia con l’Ukip, prosegue con la campagna di Nigel Farage per uscire dall’Ue, e poi sfocia in Leave.EU. Nel 2018 la quantità ingente di soldi che Banks ha iniettato per Brexit (quasi 10 milioni di euro) finisce all’attenzione della commissione elettorale: sospetta che i soldi provengano «da fonti illegittime»; l’ipotesi è che ci sia lo zampino di Mosca. Banks nega «di aver ricevuto donazioni dall’estero».

La «sberla»

Questo venerdì, all’alta corte di Londra, c’è stato l’ultimo strascico della guerra giudiziaria che dal 2019 Banks porta avanti contro Cadwalladr: dopo le audizioni degli scorsi giorni, è attesa, tra qualche settimana, la decisione del giudice. Il multimilionario ha fatto causa alla giornalista per diffamazione, e si è appigliato non ai suoi articoli ma proprio al suo popolare “Ted Talk”, e a un tweet inerente, dove Cadwalladr sosteneva che lui mentisse sulle sue connessioni con Mosca. Venerdì la difesa, oltre a ribadire che la giornalista agisce nel pubblico interesse, ha ricostruito tutte le «contraddizioni e le versioni fuorvianti fornite da Banks sugli incontri coi funzionari russi e sull’intensità delle sue relazioni con Mosca».

In aula e fuori, a esprimere supporto alla giornalista c’erano Rebecca Vincent di Reporters without borders e una lunga lista di organizzazioni, come la fondazione Daphne Caruana Galizia, Pen International, Greenpeace UK: le accomuna la difesa di giornalismo e libertà di espressione. E una lotta comune contro le “Slapp”, le sberle, le intimidazioni per via legale a reporter come Cadwalladr.

Che cosa fa di questo specifico caso una slapp? «Il caso presenta i tipici sintomi delle slapp», risponde Jessica Ní Mhainín di Index on Censorship. «Anzitutto la causa, stavolta contro una giornalista, altre volte contro accademici o whistleblower, viene intentata non contro le organizzazioni di appartenenza, ma contro il singolo».

Non è un caso che Banks si sia aggrappato a un discorso, e non a un articolo pubblicato sul Guardian o sull’Observer, e che abbia fatto causa a lei invece che all’azienda, che ha le spalle più larghe di lei da sola. Peraltro Cadwalladr è freelance, quindi ancora più “scoperta”. L’altro punto chiave è lo squilibrio economico tra accusa e difesa: «Chi intenta la causa, Banks in questo caso, è molto ricco.

L’aumento delle “slapp” va messo in relazione anche con la crescita delle diseguaglianze: la ricchezza si concentra in poche mani e il numero di super-ricchi è infinitamente superiore a prima. Personaggi come Banks possono permettersi la battaglia, mentre il giornalista, anche se è destinato a vincerla, solo per le spese legali è costretto a spendere qualcosa come 600mila euro». Ecco perché le “sberle” servono a intimidire: spingono all’autocensura. «Difendersi sarebbe così dispendioso che finisci per star zitto», nota Ní Mhainín. Il caso di Carole Cadwalladr è particolarmente increscioso: oltre alle sfide legali, ha subìto anche altri tentativi di intimidazione, attacchi online, tentativi di screditarla.

Sistema e anticorpi

Il Regno Unito, dove si svolge questo caso, è l’epicentro delle “slapp”. Qui ci sono ormai grossi studi legali che sono specializzati proprio in questa specie di intimidazioni, tanto che sempre più parlamentari denunciano il problema e si ragiona su una legge ad hoc.

L’Ue si sta muovendo in questa direzione: le ong si sono mobilitate, coalizzate (“Case” è la “Coalition against slapps in Europe”), e hanno chiesto a Bruxelles di intervenire. A novembre c’è stata anche una risoluzione dell’Europarlamento, per sollecitare nuove regole europee. «La Commissione ci sta lavorando», dice Pier Luigi Parcu, che dirige il Centre for media pluralism and freedom (Cmpf) dell’istituto universitario europeo.

Tra le tendenze allarmanti individuate dal centro nel suo “monitor sul pluralismo 2021” ci sono proprio le slapp. Come mai sono in aumento? «Una delle ragioni – dice Parcu – è che il panorama mediatico si sta infragilendo. Quando i media tradizionali erano più solidi, eventuali cause andavano contro editori con le spalle larghe. Oggi il giornalismo investigativo, che richiede tempo e risorse, viene molto spesso realizzato da free lance». Quando si è precari, si è più bersagliabili, e di conseguenza lo è anche la libertà di stampa. «Un’idea concreta per arginare le slapp? Un’assicurazione europea per giornalisti», propone Parcu. «Spesso, anche se la causa può esser vinta, le spese legali sono la vera intimidazione. Una rete di protezione europea aiuterebbe a disinnescare questa dinamica».

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