Informazione cane da guardia del potere. La Costituzione italiana e gli articoli sulla libertà di informazione e sul libero pensiero. Balle. Balle enormi come un palazzo di venti piani costruito con pilastri di sabbia. Perché è proprio il giornalismo fisicamente più vicino al potere, ma più lontano dalle sue lusinghe, quello che subisce le intimidazioni maggiori. Parliamo di cronisti, blogger, attivisti che comunicano attraverso i social, insomma, quei soggetti che stanno col fiato addosso a sindaci, assessori, consiglieri regionali imbroglioni, che svelano gli scempi ambientali sul territorio, le ruberie, i clientelismi, fanno un lavoro prezioso, spesso pagato poco, senza alcuna tutela, esposti ad attacchi, querele e richieste di risarcimento danni.

Tre anni di incubi

Daniele Brunetti è un esperto informatico e vive a Portovenere, minuscolo comune in provincia di La Spezia. Mare bellissimo, centro storico ammaliante. Insieme a un gruppo di amici fonda il “comitato spiagge libere”. Sono attivisti che controllano l’uso delle concessioni balneari e degli spazi pubblici, la buona tenuta delle spiagge, insomma, beni comuni essenziali troppo spesso depredati da interessi privati. Fa denunce sempre documentate Brunetti, pubblica post, scrive, ma sempre conservando uno stile non aggressivo, una prosa che definisce “educata”. Eppure, quando nel 2014 si occupa e scrive dell’uso di un parcheggio pubblico miracolosamente trasformato in privato, viene querelato dal sindaco.

Denuncia penale in attesa della richiesta danni in sede civile. «Mi arrivò come una mattonata in testa», racconta Brunetti, oggi cinquantenne. «In quei momenti ti chiedi se e dove hai sbagliato, rileggi quello che hai scritto e non trovi nulla, un errore, una esasperazione dei fatti. Avevo riportato varie testimonianze, anche quella del comandante dei vigili urbani. Tutto documentato. Allora ti arrabbi, ti chiedi come sia possibile, poi subentra il timore. Pensi ai soldi che dovrai spendere in avvocati per la tua difesa, al rischio di perdere e di mettere a repentaglio quel poco che hai». Brunetti si difende, spende soldi in avvocati, ne cambia ben tre. «Fino a quando, navigando su internet scopro l’esistenza di Ossigeno per l’informazione»

La struttura nata a difesa dei giornalisti prende nelle mani il caso insieme alla ong Media defence iniziative. Gli avvocati studiano la giurisprudenza europea e alcune sentenze. Stabiliscono che «un giornalista può, nell’ambito anche di un racconto di cronaca, finanche partendo da una storia i cui contorni non sono del tutto esplicati, chiedere a un personaggio di rilievo conto del proprio operato», c’è poi il diritto del giornalista «a utilizzare un linguaggio perfino provocatorio e apertamente “di sfida”». Nel febbraio 2017 Brunetti viene assolto «perché il fatto non costituisce reato», la giurisprudenza europea in materia viene accolta. «Tre anni di incubi, paure, con gli amici che ti dicevano il classico chi te lo fa fare. Alla fine ho vinto».

60mila euro di danni

Claudia Aldi, oggi giornalista Rai e inviata di trasmissioni importanti, nel 2003 lavorava come cronista di «nera e giudiziaria» al Corriere della Maremma. Scopre un caso di molestie a minorenni da parte di un prete. Claudia scrive, il giornale fa paginate intere. Nel suo lavoro di inchiesta incontra un padre che denuncia le modalità intimidatorie dell’interrogatorio del figlio minorenne.

Sentito senza l’ausilio di uno psicologo. Nell’articolo fa riferimenti generici, non mette mai nomi e cognomi degli ufficiali di polizia giudiziaria, eppure viene querelata da alcuni agenti che si sentono lesi nell’onore. Richiesta danni 60mila euro, a lei, a una collaboratrice e al direttore della testata.

In primo grado viene condannata, lei appella la sentenza, ma passano 14 anni per essere finalmente assolta. Non ha più un editore alle spalle, i vecchi avvocati sono spariti, a sostenerla solo Ossigeno con l’avvocato Andrea Di Pietro. Che la convince a rinunciare alla prescrizione e ad andare avanti in nome di «una giusta sentenza». Claudia vince, ma nessuna sentenza la ripagherà mai di quei 14 anni vissuti tra l’angoscia di perdere e di giocarsi quello che ha costruito in anni di lavoro.

Il centro di accoglienza

Sud, mafia, immigrati, e affari sulla loro pelle. Raffaella Cosentino, free lance, scende in Calabria a raccontare per il settimanale L’Espresso, lo scandalo del centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto. Una storia enorme di centinaia di milioni di euro sottratti all’assistenza ai migranti e finita nelle mani di speculatori e di mafiosi.

Una delle più potenti cosche calabresi, il clan Arena, aveva messo mani e piedi nel business. Raffaella indaga, raccoglie testimonianze e confidenze da parte di inquirenti e investigatori. Insomma, fa il suo lavoro e pubblica un articolo dal titolo A Isola Capo Rizzuto l’accoglienza è un affare. Ai danni dello stato e dei diritti umani. Viene querelata da Pasquale Poerio, uno dei gestori del servizio catering.

Passano quattro anni prima del proscioglimento da parte del gip di Roma, nel frattempo la procura di Catanzaro, indagando sugli affari del clan Arena, scopre il verminaio del centro di accoglienza di Isola. Qui la ‘ndrangheta mangiava su tutto, anche sul cibo scadente dato agli immigrati. Questione sollevata dalla giornalista Cosentino, e oggetto della querela.

Del cibo parla in conferenza stampa il procuratore Nicola Gratteri: «Indagando sulla famiglia Arena siamo arrivati al Cara di Isola Capo Rizzuto. All’interno sono successe cose veramente tristi: un giorno sono arrivati 250 pasti per 500 migranti. Ebbene 250 persone hanno mangiato il giorno dopo. Non solo era poco, ma solitamente era un cibo che si dà ai maiali. Questi si arricchiscono sulle spalle dei migranti. Questa è un’indagine che abbraccia quasi 10 anni di malaffare all’interno del Cara gestito in modo mafioso dalla famiglia Arena. Il Centro di accoglienza e la Misericordia sono il bancomat della ‘ndrangheta». Proprio le cose scritte dalla Cosentino, che però non andavano raccontate. Perché mafia e potere odiano i fari accesi sui loro affari. Non amano i giornalisti che arrivano prima dei carabinieri e dei pubblici ministeri. Quelli che, taccuino in mano, raccolgono storie, ricostruiscono contesti e collegamenti. Insomma, i “cani da guardia” tanto celebrati nei convegni. Uomini e donne spesso soli e pagati male, che hanno una concezione sacra del mestiere del giornalista.

 

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