I servizi segreti italiani e quelli americani sapevano da mesi, come, quando e con quale accompagnatori Matteo Salvini incontrava diplomatici russi a Roma. Non perché spiassero il senatore della Lega (per i nostri comparti di sicurezza è irrilevante se parlamentari italiani fanno visita a questa o un’altra sede diplomatica straniera), ma per un motivo più banale: villa Abamelek, sede dell’ambasciata della Federazione guidata dall’ambasciatore Sergey Razov, è monitorata costantemente dall’intelligence Usa e dalla nostra agenzia di controspionaggio interna, l’Aisi. Un controllo che si è intensificato dopo l’inizio della guerra in Ucraina e lo sfilacciamento dei rapporti tra i paesi occidentali e Mosca.

Domani – grazie ad autorevoli fonti convergenti – è in grado anche di rivelare che, per via informale, anche alcuni importanti esponenti di Palazzo Chigi fossero a conoscenza delle date esatte degli incontri Razov-Salvini, e come esponenti di vertice della Lega siano stati addirittura messi in allerta per la presenza nei randez vous del nuovo consulente per la politica estera del leader leghista, il misterioso Antonio Capuano.

Avvertimenti caduti tutti nel vuoto, visto che gli incontri con l’ambasciatore russo – dopo il primo degli inizio di marzo – si sono susseguiti senza soluzione di continuità, e quasi sempre in presenza dell’avvocato di Frattaminore. Trasformatosi da qualche anno da ex deputato in una sorta di consulente di alcune ambasciate mediorentali, e poi in nuovo attendente diplomatico di Salvini.

Amerikani

Nonostante le preoccupazioni di Giancarlo Giorgetti e altri big per il curriculum zoppicante di Capuano in materia di rapporti internazionali, l’ex parlamentare di Forza Italia ha superato in un battibaleno tutte le gerarchie nel cuore del leader. Diventando il regista di una diplomazia parallela non solo a quella del governo Draghi, ma pure a quella su cui stavano lavorando gli strateghi della Lega. Cioè lo stesso capo delegazione e ministro Giorgetti, il responsabile del partito per gli esteri Lorenzo Fontana e la giornalista Mariagiovanna Maglie, amica storica di Salvini.

Dunque non sorprende che sia stato il solito Capuano ad accompagnare Salvini anche dagli americani. Il 22 marzo la coppia viene avvistata nell’ambasciata di Via Veneto degli Stati Uniti, per un delicato incontro a tre con il capo missione dell’ambasciata a Roma, l’incaricato d’affari Thomas Smitham.

Gli sherpa Usa restano basiti della presenza del legale campano, che non avevano mai visto prima. Della visita all’ambasciata si parla assai poco sui giornali. Formalmente, è solo l’ultimo di una serie di incontri che l’ambasciatore facente funzioni ha deciso di tenere con i leader politici italiani di punta. Il retroscena racconta invece che Salvini non era stato convocato dal console, e non a caso: gli americani hanno preferito avere rapporti minimi con il senatore, considerato dai tempi dello scandalo dell’Hotel Metropol non affidabile, perché troppo vicino alla cerchia di Vladimir Putin.

È a guerra appena iniziata che entra in campo Capuano, che suggerisce al suo nuovo dante causa di chiedere lui agli americani un appuntamento formale. Dallo staff del senatore dicono però che «l’incontro tra Salvini e Smitham è stato preso unicamente tramite canali istituzionali». Se la presenza di Capuano è confermata («è verosimile»), viene invece negata la circostanza, messa in giro dai nemici interni di Salvini, che sia stato Capuano a “vendersi” il sospirato meeting per provare a ottenere una consulenza economica dal partito (mai arrivata).

Il colloquio, come si legge sul comunicato stampa, aveva al centro «consultazioni su argomenti di interesse reciproco con particolari riferimento alla guerra in Ucraina». Difficile ad ora sapere se Salvini e Capuano abbiano parlato con Smitham delle loro interlocuzioni con l’ambasciata russa, del piano di pace in salsa padana o dell’intenzione di volare a Mosca per chiedere un cessate il fuoco: da Via Veneto dicono solo «di incontrare regolarmente con tanti rappresentanti politici: ma in genere non diamo informazioni sul contenuto delle conversazioni».

«Draghi sapeva tutto»

Ieri, 1 giugno, Salvini, dopo le inchieste di Domani e le polemiche sul suo viaggio poi saltato a Mosca, ha replicato per la prima volta «agli attacchi subiti». Con un tweet rivolto oltreché ai media colpevoli di aver «detto che gli incontri con Razov erano segreti», anche a Palazzo Chigi, che a chi vi scrive ha chiarito come il premier e i suoi consiglieri nulla sapevano delle interlocuzioni di Salvini con l’ambasciata russa.

Salvini e i suoi uomini ribadiscono invece che le sue mosse diplomatiche sono sempre avvenute alla luce del sole, e portano come prova una serie di lanci di agenzia, in cui il leader parla dei propri contatti con ambasciatori stranieri, «tra cui quello russo», e della «sua disponibilità di andare a Mosca».

Al netto delle dichiarazioni effettivamente avvenute c’è un lancio di agenzia che colpisce più di altri. Si tratta di quello del 5 maggio, quando il leghista dice, dopo un incontro a Palazzo Chigi: «Ho ribadito al premier Draghi che nel mio piccolo, se potessi essere protagonista del processo di pace, io andrei ovunque: da Mosca a Washington, da Pechino a Istanbul, visto che oggi ho incontrato l’ambasciatore russo. Non capisco la polemica italiana su chi lavora per la pace». Una cosa però è annunciare di aver chiesto all’ambasciatore russo un generico cessate il fuoco, un altro è informare il governo di ogni passaggio sulla trattativa fatta con Razov e lo sconosciuto Capuano per un piano di pace in vari punti.

Palazzo Chigi, sentito sul punto, nega che il 5 maggio Salvini abbia fatto menzione dei suoi colloqui con Razov. «Il governo mente sapendo di mentire», s’indignano dallo staff del senatore, «speriamo che il Copasir faccia trasparenza anche su questo e non solo sui legittimi appuntamenti del nostro segretario con ambasciatori stranieri per parlare di pace».

 

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