Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dopo la serie sull’omicidio di Mario Francese, si continua con la narrazione del patto tra Cosa Nostra e i colletti bianchi.

Il mito della mafia dal volto garbato – che oggi si espande anche al Nord e seduce i padroni delle “fabbrichette” – aleggia ai piedi dell’Etna da quarant’anni e forse più. È una storia che parte dalla Catania bene dei ruggenti anni Ottanta di Cosa nostra, e continua anche adesso.

Il sole del nuovo millennio torna a scaldare la città come se nulla sia cambiato. Gli inverni ventosi e incerti lasciano il posto alle estati sempre più torride e la città, leggiadra e strafottente, rimane impassibile come la statua di Garibaldi: ora infuocata dal sole, ora accarezzata dalla pioggia e dalle foglie mosse dal vento. Un blocco di pietra, stagliato al centro della via principale, che se ne sta lì, come se fosse una persona; con lo sguardo di sbieco a sorvegliare dall’alto la strada che dal mare porta all’Etna. Poco o nulla di nuovo da quella veduta: i modelli più recenti di auto tedesche, Mercedes e BMW, hanno preso il posto delle vecchie Fiat, ma continuano a stare ai suoi piedi in divieto di sosta, mentre i proprietari comprano gli arancini nel vicino Bar Savia, che nel frattempo ha rinnovato insegne e tavolini.

Decine di giovani immigrati africani presidiano gli ingressi della Villa Bellini, scherzando con gli anziani seduti sulle panchine. E il passeggio lungo la via non è più come era un tempo, segnato dal rituale lento e cadenzato dalla sosta davanti alle vetrine. Di negozi ce ne sono sempre meno e si assiste all’incedere, ora frenetico ora divertito, di giovani signore stregate da uno schermo che ne incolla lo sguardo e dispensa le ultime ironie insieme ad ansie, corteggiamenti e vanità. Ma i catanesi continuano a chiacchierare e a riunirsi negli stessi posti che un tempo frequentavano da giovani, dove i boss riuscivano a mescolarsi in mezzo alla gente normale.

L’anno scorso, durante una pausa di udienza, prendevo il mio solito caffè nel bar vicino al Tribunale quando mi si parò davanti un signore piuttosto anziano. Non l’ho messo subito a fuoco, ma fu lui a farsi riconoscere. «E cchi è, non s’arricorda…?» mi disse con tono fintamente permaloso. Era un ex vicino della vecchia casa dove abitavo da ragazzo, anche lui da tempo trasferito. «L’ho seguito nella sua carriera e ho letto i suoi libri. Bellisimi sono…! Era da tempo che glielo volevo dire: mi hanno fatto pensare a quando ero giovane; ho fatto per quarant’anni l’impiegato e adesso sono vecchio, senza soldi e senza essermi neppure divertito. È passata in un attimo la vita: solo i ricordi mi restano».

Poi con un colpo di scena concluse il suo pensiero sui protagonisti di quei libri. «Una volta questo locale…, questo dove siamo ora…, si chiamava bar Finocchiaro e ci davamo appuntamento qua con tutti gli amici, prima di andare a ballare o a giocare a carte. Poi alla fine arrivava Nitto, parcheggiava la sua 132 ed entrava tutto vestito elegante…». «Ma Nitto chi, scusi?» gli chiesi come se non avessi capito.

«Come Nitto chi? Santapaola!» mi rispose con naturalezza. E mentre il caffè se ne andava di traverso nel cannarozzo sbagliato della trachea, la prima cosa che mi venne in mente fu : «Min… la 132 blu della strage di viale delle Olimpiadi…!» Quella era proprio la macchina di Nitto e con quel riscontro avevo capito che non stava parlando per sentito dire. Strabuzzai gli occhi, ma lui non si accorse di nulla. Non aveva mai commesso reati quel vecchietto, né torto un capello a nessuno, ma nella sua Catania, tra le persone da ricordare con nostalgia, c’era posto anche per il capo di Cosa nostra. E se lo ricordava così: «Era uno simpatico e alla mano… lo conoscevamo tutti… e poi non si dava troppe arie. E io con loro mi trovavo bene. La prossima volta che nasco anziché l’impiegato, me ne vado a fare il croupier nelle isole… come mi aveva proposto un mio amico!»

Dalle parti dell’Etna quando si evocano le isole a proposito di gioco d’azzardo, ci si intende riferire a Saint Marteen, che è un piccolo paradiso che separa le Antille olandesi da quelle francesi. Lì si narra che i catanesi abbiano trasferito molti dei propri interessi: alberghi, casinò e ristoranti, aperti con i soldi della famiglia già negli anni Settanta. Era il periodo in cui il capo di Cosa nostra catanese e alcuni amici fidati avevano provato senza successo a dare la scalata al casinò di Campione d’Italia. Il mio ex vicino di casa me ne parlava con naturalezza, come se si fosse trattato di una gita al mare. […].

Testi tratti dal libro "Cosa Nostra S.p.a., di Sebastiano Ardita

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