Con una dichiarazione al solito sorvegliata il ministero degli Esteri cinese ieri ha esteso le congratulazioni ufficiali a Joe Biden e Kamala Harris, presidente e vicepresidente eletti per volontà del popolo americano.

È una scelta che va «rispettata», anche se «i risultati delle elezioni saranno confermati sulla base delle leggi e delle procedure degli Stati Uniti», ha detto il portavoce del ministero, Wang Wenbin.

Formule cautelative a parte, la dichiarazione mette il presidente della Repubblica popolare, Xi Jinping, nel novero dei
leader mondiali che con sospetto ritardo hanno riconosciuto la vittoria di Biden, e lo toglie dal quello dei leader mondiali che con colpevole reticenza continuano a non riconoscere la
sconfitta di Donald Trump. Ad esempio il presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, e quello russo, Vladimir Putin, tedofori del negazionismo elettorale.

Quest’ultimo ha fatto sapere che ritiene corretto aspettare l’annuncio ufficiale sull’esito delle elezioni, ma non è nemmeno
chiaro se nel suo calcolo faccia fede la riunione del collegio elettorale (14 dicembre), l’invio dei certificati (23 dicembre) o il conteggio formale dei grandi elettori che spetta al Congresso riunito in seduta comune (6 gennaio).

Non importa molto: Putin e gli altri nella vita fanno i leader ostili alla democrazia liberale occidentale, non gli scrutatori della contea di Maricopa (Arizona), e perciò la gestione capricciosa del riconoscimento di quello che un tempo si sarebbe chiamato il “leader del mondo libero” è un gesto squisitamente politico. Si è molto strologato sul senso del messaggio, o meglio dell’assenza di messaggio, concludendo generalmente che gli autocrati segnalano con il silenzio la loro profonda simpatia per lo sconfitto Trump e il disprezzo per il trionfante Biden.

Questione di schieramenti, insomma. Esiste però anche un’interpretazione peggiorativa della vicenda: i Putin e i Bolsonaro tardano a riconoscere il presidente perché ai loro occhi non c’è nulla di meglio dello spettacolo della democrazia americana che si avvita su sé stessa, della degenerazione interna, dello scontro fra fazioni, del presidente che nega l’evidenza e asserragliato nella sua timeline di Twitter licenzia ministri e segretari come se fosse nell’ultima, desolante puntata di The Apprentice, delle teorie del complotto che fioccano senza nemmeno bisogno di mobilitare le fabbriche dei troll. Si dice: sono amici di Trump.

Ma il messaggio è anche più profondo: sono antagonisti del modello democratico occidentale, e per questo realizzano il massimo dell’interesse politico non quando hanno un alleato alla Casa Bianca, ma quando in America c’è un clima da guerra civile.

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