Chi eravamo e chi siamo diventati, il 2025 è stato un anno di sorprese evolutive

Se provassimo a raccogliere tutti i nuovi fossili, le tecniche e le idee emerse nel 2025 sul tema dell’evoluzione umana e volessimo raccontarle a voce, probabilmente finiremmo nel 2027. È stato un anno densissimo e quasi impossibile da seguire per intero, a meno di isolarsi completamente dal resto del mondo. Questo vale ancor più per la paleoantropologia, un settore estremamente dispersivo. Mentre l’astronomia moderna, ad esempio, concentra enormi risorse su pochi osservatori internazionali, come i grandi telescopi in Cile o alle Canarie o i telescopi spaziali, lo studio dell’evoluzione umana procede in decine di cantieri di scavo sparsi nel mondo, ognuno con domande e approcci propri. Fare un bilancio dell’anno può quindi diventare un esercizio rischioso. Con questa consapevolezza, ci sono però tre grandi temi del 2025 che vale la pena evidenziare: le scoperte sui Denisoviani, che hanno rivoluzionato la nostra idea di questo misterioso gruppo umano; le nuove intuizioni su come i nostri antenati costruivano e usavano gli utensili e infine una riflessione ampia su come la nostra specie sia diventata così diversa dagli altri primati. Il palazzo minoico di Archanes, dietro l’eleganza, ingegneri geniali Il 2025 dei Denisoviani Sono passati 15 anni dalla scoperta dei Denisoviani, un gruppo umano arcaico che visse in Asia orientale decine di migliaia di anni fa. Da allora questa popolazione enigmatica ha affascinato i ricercatori e il 2025 è stato un anno straordinario: una serie di nuove scoperte ha ampliato in modo inatteso ciò che pensavamo di sapere su di loro. I Denisoviani furono identificati per la prima volta grazie alla genetica. Nel 2010, un minuscolo frammento di falange trovato nella grotta siberiana di Denisova rivelò un Dna distinto da quello dei Neanderthal e degli esseri umani moderni, l’Homo sapiens. La genetica mostrò però, che erano strettamente imparentati con i Neanderthal e che si erano incrociati con la nostra specie. Ancora oggi, popolazioni del Sud-Est asiatico – come Papua Nuova Guinea e Filippine – conservano le più alte percentuali di Dna denisoviano. Nei primi anni successivi, il ritrovamento di altri resti fu lento: solo nel 2019 emerse la mascella di Xiahe, sull’altopiano tibetano, poi altri fossili attribuiti provvisoriamente al gruppo, caratterizzati da corpi robusti e denti sorprendentemente grandi. Il 2025, invece, è stato un anno di svolta. Ad aprile è arrivata la conferma che la mandibola dragata nel 2008 dal Canale di Penghu, a Taiwan, appartiene a un Denisoviano. L’attribuzione è stata possibile grazie all’analisi delle proteine fossili e ha esteso la loro presenza molto più a Sud-Est, in linea con le tracce genetiche conservate nelle popolazioni moderne. A giugno è stato poi identificato il primo volto denisoviano: il grande cranio di Harbin, in Cina settentrionale, descritto nel 2021 come Homo longi. Grazie alle proteine ossee e al Dna mitocondriale estratto dal tartaro dentale, è stato possibile confermare che si tratta di un individuo denisoviano. Fin qui, tutto coerente con quanto la genetica aveva suggerito: una popolazione diffusa in gran parte dell’Asia e caratterizzata da corporatura massiccia. Ma le vere sorprese sarebbero arrivate dopo. Il pericolo dei vulcani silenti, la minaccia che non vediamo Molto antichi A settembre, la ricostruzione della testa schiacciata di Yunxian – datata a circa un milione di anni fa – ha suggerito che i Denisoviani esistessero come gruppo indipendente già allora. Questo sposta indietro la loro origine di centinaia di migliaia di anni e implica che il loro antenato comune con Neanderthal e Homo sapiens, l’“Antenato X”, dovette vivere oltre un milione di anni fa. Un mese più tardi è stato pubblicato il secondo genoma denisoviano di alta qualità, ottenuto da un dente di 200.000 anni fa della grotta di Denisova. Questo genoma è molto diverso dal primo, più recente, e dal Dna denisoviano conservato nelle popolazioni moderne. Ciò indica l’esistenza di almeno tre popolazioni distinte: una molto antica, una più recente e una terza che si incrociò con l’uomo moderno ma che rimane, dal punto di vista archeologico, completamente sconosciuta. Dopo quindici anni di ricerche, i Denisoviani rimangono un enigma: diffusi su un’area vastissima, presenti per centinaia di migliaia di anni, eppure documentati da pochissimi resti. E il mistero, con ogni probabilità, non sarà risolto presto. Addio campagna, l’umanità si sposta sempre più nelle città Gli utensili La costruzione e l’uso di utensili è una delle caratteristiche centrali dell’umanità – anche se non esclusiva, come dimostrò Jane Goodall, scomparsa quest’anno, osservando gli scimpanzé. Gli esseri umani, tuttavia, hanno portato questa capacità a un livello superiore, realizzando strumenti molto più vari, complessi e fondamentali per la sopravvivenza. Le ultime ricerche mostrano che questa abilità è molto più antica di quanto si pensasse. In Tanzania, scavi pubblicati a marzo hanno dimostrato che ominini non ancora identificati lavoravano regolarmente utensili in osso già 1,5 milioni di anni fa, anticipando di oltre un milione di anni l’uso diffuso di questi strumenti. Allo stesso modo, mentre si riteneva che l’avorio fosse stato lavorato solo negli ultimi 50.000 anni, in Ucraina sono state trovate schegge di zanne di mammut datate a 400.000 anni fa. Gli utensili in pietra sono ancora più antichi, anche grazie alla maggiore probabilità di conservazione: a Lomekwi, in Kenya, sono stati trovati strumenti di 3,3 milioni di anni fa. Nuovi scavi hanno mostrato che tra 2,75 e 2,44 milioni di anni fa venivano prodotti regolarmente utensili olduvaiani, segno che la lavorazione della pietra era già diventata una pratica stabile. Clima, tre anni di rincorsa al rialzo. Le emissioni toccano livelli record Chi li ha prodotti? Uno dei grandi problemi è stabilire chi realizzasse questi utensili, spesso scoperti senza resti scheletrici associati. Tradizionalmente venivano attribuiti al genere Homo o agli Australopithecus, ma emergono prove sempre più solide che anche i Paranthropus – ominini dal cervello piccolo e denti enormi – fossero in grado di costruirli, almeno nelle forme più semplici. Due anni fa, utensili olduvaiani sono stati trovati insieme a denti di Paranthropus in Kenya; e quest’anno è stata scoperta la prima mano fossilizzata di Paranthropus, dotata sia della forza di un gorilla sia della precisione necessaria per lavorare la pietra. Come nacquero i primi utensili? Una possibilità – avanzata nel 2025 da Metin Eren e colleghi – è che le prime “ispirazioni” non fossero intenzionali: molte fratture naturali di pietre, provocate dal gelo o da animali di grandi dimensioni, producono schegge sorprendentemente simili ai primi utensili. I nostri antenati potrebbero aver iniziato a usarle, e solo in seguito aver imparato a riprodurle deliberatamente. Con l’aumento della complessità degli strumenti, cresceva anche la necessità di spiegare e insegnare come costruirli: un cambiamento culturale che potrebbe aver favorito lo sviluppo del linguaggio. Uno studio recente ha analizzato quanto sia difficile trasmettere competenze diverse – dalla vicinanza fisica all’apprendimento per ripetizione – individuando due transizioni cruciali nella trasmissione del sapere, forse legate proprio ai progressi tecnologici. L’arte di costruire utensili sembra quindi essersi evoluta gradualmente dai primati che ci hanno preceduto, trasformando profondamente anche le nostre capacità cognitive. La Terra si sta oscurando e così si scalda più velocemente Essere umani Arriviamo così alla domanda più grande: come e perché gli esseri umani si sono evoluti in modo così diverso dagli altri primati? È una questione complessa per almeno tre motivi. Il primo è che la “specialità” umana è contraddittoria. A luglio, il sociologo Jonathan R. Goodman ha sostenuto che siamo stati modellati dall’evoluzione per essere allo stesso tempo «machiavellici» – pronti alla strategia e al tradimento – e «nati socialisti», capaci di cooperazione fondata su norme fortissime contro violenza e furto. Qualsiasi tentativo di dipingerci come naturalmente buoni o cattivi è una banalizzazione. Il secondo problema riguarda i nostri pregiudizi culturali: ciò che consideriamo “umano” riflette la società in cui viviamo. Per decenni, discipline come l’archeologia hanno interpretato il passato in modo androcentrico. Solo recentemente, anche grazie alla spinta del femminismo, si stanno cercando attivamente prove del ruolo centrale delle donne preistoriche. L’articolo di Laura Spinney, che sostiene che «nella preistoria le donne furono sovrane, guerriere, cacciatrici e sciamane», è un esempio di questo cambiamento prospettico. Il terzo ostacolo è che è estremamente difficile capire che cosa pensassero le persone di un tempo quando adottavano nuovi comportamenti: perché hanno iniziato a seppellire i morti? Come e perché hanno addomesticato i cani e altre specie? Nel corso del 2025 sono state avanzate alcune ipotesi per rispondere a ciò: due sono particolarmente interessanti. La prima riguarda il ruolo degli ormoni sessuali prodotti dalla placenta: esperimenti suggeriscono che questi ormoni possano modellare lo sviluppo cerebrale del feto, forse conferendo la potenza cognitiva necessaria alla complessità sociale tipica dell’uomo. La seconda ipotesi è ancora più intrigante: le stesse variazioni genetiche che hanno favorito l’aumento dell’intelligenza umana potrebbero averci reso più vulnerabili alle malattie mentali. A ottobre è emerso che varianti legate alle capacità cognitive nei nostri antenati sono state seguite, poco dopo, da varianti associate a disturbi psichiatrici. Osservazione che alimenta un’idea discussa da anni: forse il cervello umano opera al limite massimo delle sue possibilità, come un motore ad altissime prestazioni che eccelle ma rischia più facilmente un guasto. Non ultima domanda per importanza, che vale soprattutto per chi è credente è: l’anima quando arrivò nell’Homo? L’ebbe in dono solo il sapiens o anche le altre specie? Domande a cui la scienza difficilmente potrà dare una risposta, ma l’interrogativo teologico è certamente di grande importanza. Il nostro pianeta ha la febbre alta: numeri per curare la crisi climatica Novità metodologica Un’ultima menzione riguarda le tecniche di ricerca. A maggio, il team di Alexandra Morton-Hayward dell’Università di Oxford ha annunciato di aver sviluppato un metodo per estrarre proteine conservate da cervelli antichi e potenzialmente da altri tessuti molli, rarissimi nel record fossile. Se la tecnica si rivelerà efficace, potrebbe aprire una nuova miniera di informazioni nei prossimi anni. Estrarre proteine da cervelli antichi infatti, può diventare una chiave completamente nuova per capire come è emerso il cervello di Homo sapiens e perché funziona in modo così diverso da quello di altri ominini e ominidi. Dai fossili possiamo ricavare la forma esterna del cervello (tramite gli endocasti), ma non sappiamo nulla dei suoi processi interni. Le proteine sono l’esecuzione pratica dei geni: ci dicono quali funzioni erano realmente operative. Capirle equivale a osservare il motore in funzione, non solo lo chassis. Per ora confrontiamo Dna, ma la proteomica antica potrebbe rivelare se i Neanderthal avessero proteine sinaptiche diverse, se la nostra specie produceva proteine legate a plasticità cerebrale più elevate, le differenze nei sistemi che regolano linguaggio, memoria, sviluppo neuronale. Questo aprirebbe confronti mai possibili finora.