«Nella ricostruzione della vicenda Shalabayeva manca un pezzo: chi ha dato gli ordini». Nonostante le pesanti condanne per il sequestro della donna kazaka e della figlia Alua, Astolfo Di Amato, il loro avvocato, è convinto che la sentenza di Perugia del 14 ottobre non faccia piena luce su una questione che ha coinvolto a vario titolo il ministero dell'Interno, forze di Polizia e magistrati. Cinque anni di carcere e l'interdizione perpetua dai pubblici uffici per Renato Cortese, questore di Palermo e all'epoca dei fatti capo della Squadra mobile di Roma, e per Maurizio Improta, questore di Rimini ed ex responsabile dell'Ufficio immigrazione della Questura capitolina, non esauriscono pienamente il quadro di una vicenda che nel 2013 ha provocato un terremoto politico.

Secondo l'avvocato Di Amato, Cortese e Improta, nel frattempo trasferiti dal capo della polizia Franco Gabrielli, non possono aver agito di propria iniziativa, ingannando il Viminale, il Prefetto e la Procura di Roma, senza aver ricevuto disposizioni dall'alto. I due non avevano alcun interesse specifico in questa vicenda, manca il movente. Cortese e Improta sono stati accusati di aver trasformato l'espulsione di una donna in un'estradizione senza garanzie. Sarebbe bastato che solo una delle tante istituzioni coinvolte si fosse limitata a cercare su Google il nome Mukhtar Ablyazov, marito di Alma e oppositore ricercato dai kazaki, per impedire il rimpatrio.

KAZAKI AL VIMINALE

La storia italiana di Alma Shalabayeva inizia il 28 maggio di sette anni fa, quando l'ambasciatore del Kazakistan a Roma, Adrian Yelemessov, prova insistentemente a mettersi in contatto col ministro dell'Interno Angelino Alfano, in carica da un mese esatto. Dal 28 aprile 2013, infatti, a Palazzo Chigi siede Enrico Letta, sostenuto anche dal Pdl. Le autorità di Astana stanno cercando un «latitante» dicono, Mukhtar Ablyazov, e vogliono informare il governo italiano: il ricercato si troverebbe nella Capitale, in una villa del quartiere Casal Palocco. Ed ecco la prima anomalia: perché un diplomatico cerca un'interlocuzione col Viminale e non, come da prassi, con la Farnesina? Al ministero degli Esteri, del resto, siede Emma Bonino, da sempre sensibile al tema dei diritti umani e probabilmente consapevole dei report di organizzazioni internazionali come Amnesty international sulle condizioni di detenzione disumane degli oppositori politici ad Astana.

Dal 1990 (e fino al 2019) il Kazakstan ha un solo presidente, Nursultan Nazarbayev, di certo non un faro di democrazia. L'Italia ha da tempo interessi nell'ex paese sovietico. Almeno dal 1992, da quando l'Eni «coopera nel giacimento in produzione di Karachaganak e partecipiamo al consorzio North Caspian Sea», come si legge sul sito del colosso italiano dell'energia che negli anni ha stipulato varie convenzioni col governo kazako per «l'esplorazione e la produzione di idrocarburi».

L'ambasciatore kazako non riesce a parlare al telefono con Alfano e sceglie di recarsi direttamente in Questura. Nel primo pomeriggio incontra il capo della Squadra mobile Renato Cortese e lo informa della presenza a Roma di Ablyazov, ricercato dall'Interpol per aver sottratto «ingentissime somme di denaro» in Kazakistan. Dopo qualche ora Alfano si convince a ricevere l'ambasciatore, ma affida la faccenda al capo di Gabinetto Giuseppe Procaccini, l'unico ad aver rassegnato le dimissioni dopo lo “scandalo”. Quella notte stessa scatta l'irruzione nella villa di Casal Palocco.

L'IRRUZIONE

L'operazione avviene attorno alla mezzanotte, ma in casa non c'è traccia del ricercato. Sono presenti la moglie del dissidente insieme alla figlia Alua di 6 anni, e alla sorella Venera col marito Bolat Seraliyev. A mezzanotte «fui svegliata da un forte rumore. C’era gente che bussava alle finestre e alle porte», racconterà Alma nel suo diario. «Quando aprii la porta...mi diedero una spinta e circa 30-35 persone entrarono in casa». Gli agenti chiedono le generalità dei presenti ma la moglie di Ablyazov si rifiuta di riferire il suo nome e quello della bambina, teme per la su vita. «Risposi: “Sono russa”. “Puttana russa”, mi disse uno di loro». Shalabayeva esibisce un regolare passaporto diplomatico della Repubblica Centrafricana su cui si legge Alma Ayan, uno pseudonimo “di sicurezza” garantito a una donna in pericolo.

Per la Polizia è falso. Il documento viene sequestrato, insieme a 50 mila euro in contanti e materiale elettronico: la donna viene denunciata. Alma e il cognato Bolat sono trasportati in questura per gli accertamenti dell'Ufficio immigrazione. Eppure la Polizia dovrebbe già sapere chi ha davanti. Sono stati gli stessi kazaki a segnalarlo il giorno prima.

Alua, la bimba, viene affidata ai domestici. Alma no. Viene trasferita nel Centro identificazione espulsione di Ponte Galeria. La mattina del 29 maggio, poche ore dopo l'irruzione, il decreto d'espulsione è già firmato dal Prefetto. La rapidità di tutte le operazioni è fuori dall'ordinario, così come l'incredibile dispiegamento di forze per espatriare quella che a tutti gli effetti è ritenuta una “semplice” clandestina.

SENZA AVVOCATI

Al centro di Ponte Galeria Shalabayeva trascorre una notte intera senza poter parlare con i propri legali. Una compagna del centro le presta un cellulare e con quello riesce a contattare i familiari. «Temevo che avessero preso mia figlia», racconta la donna nel suo memoriale. Informati del decreto d'espulsione, i kazaki si danno da fare: mettere a disposizione un volo privato per il rimpatrio.

Non è la persona che cercavano a Casal Palocco, ma insistono per l'estradizione. La mattina del 31 maggio per la prima volta Alma può parlare con i suoi difensori. Davanti alla giudice di pace Stefania Lavore (condannata per falso ideologico a due anni e sei mesi di reclusione, insieme a Cortese e Improta) si svolge l'udienza per la conferma del trattenimento. Evidentemente sicuri dell'esito i kazaki hanno già noleggiato l'aereo per il rimpatrio prima dell'inizio dell'udienza.

L'avvocato Olivo spiega alla dottoressa Lavore la delicatezza della situazione, ribadisce davanti alla giudice che la sua assistita è la moglie di un dissidente che sarebbe in pericolo di vita in caso di rimpatrio e ne chiede la protezione internazionale. Ma Lavore si limita a ribadire che la donna è in possesso di un passaporto falso (fatto che la difesa contesta) e a confermare il provvedimento. Nessun colloquio aggiuntivo con Alma viene concesso in quel frangente. La moglie di Ablyazov viene condotta all'aeroporto di Ciampino. Non prima che si consumi un nuovo abuso però: ai kazaki servono le foto di Alma e della figlia per preparare i documenti per il rimpatrio. Saranno le stesse autorità italiane a fornirle. Come? Secondo i pm fu Improta a consegnare a Nurlan Khassen, consigliere dell'ambasciata del Kazakistan, le foto tratte dal passaporto sequestrato.

LA FIRMA DI PIGNATONE

Per consentire l'espulsione di Alma e Alua, serve il nulla osta della Procura di Roma. Su Shalabayeva pende un procedimento per possesso di passaporto falso e tocca ai pm romani autorizzare o meno l'espatrio. Non potendo più parlare con la propria assistita, gli avvocati Federico e Riccardo Olivo si precipitano a Piazzale Clodio per parlare col sostituto procuratore Eugenio Albamonte e con l'aggiunto Agnello Rossi. È lo stesso Albamonte a raccontare l'episodio ai magistrati di Perugia, come persona informata sui fatti. Il pm dice di aver ricevuto quella mattina la telefonata di Cortese al quale aveva garantito il lasciapassare per l'espulsione.

L'arrivo degli avvocati cambia i programmi. Olivo mostra la documentazione che certifica l'autenticità del passaporto sequestrato e «mi riferì anche», racconta Albamonte, «che non tanto la signora, quanto il marito era un oppositore politico del regime kazako e mi raccontò che anche da fonti aperte risultava questa circostanza».

Albamonte decide di ritirare il nulla osta per valutare la documentazione prodotta e riceve immediatamente la telefonata del responsabile Ufficio immigrazione: «Improta insisteva sulla necessità di una decisione celere», un aereo stava per partire da Ciampino. Il sostituto procuratore romano capisce che la faccenda è delicata, prende tutta la documentazione e bussa all'ufficio del capo della Procura, Giuseppe Pignatone, per sottoporla a suo giudizio. «Esaminammo le carte e ci convincemmo che quel passaporto fosse falso e che l'identità della signora era il tema dal quale dovevamo trarre il nostro convincimento», spiega ancora Albamonte, poi aggiunge: «Il tema della posizione di Ablyazov rispetto al regime kazako non fu centrale nelle nostre valutazioni».Il nulla osta viene dunque concesso, ma a firmarlo è anche il capo della Procura Pignatone: forse un unicum per provvedimenti così ordinari. Tuttavia l’ex capo della procura di Roma e ora presidente del tribunale vaticano non è mai stato sentito dai magistrati di Perugia né è stato chiamato a testimoniare al processo che ha condannato Renato Cortese, il poliziotto con cui a Palermo nel 2006 ha arrestato il super latitante Bernardo Provenzano.

Il nulla osta ha condannato Alma Shalabayeva e la figlia Alua al rimpatrio. L'ultimo atto di una lunghissima catena di omissioni o leggerezze.

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