Maria Licciardi chiama un suo uomo fidato per avere notizie in merito a una parente ricoverata e affetta da Covid-19. La circostanza emerge dal provvedimento di fermo emesso dalla procura di Napoli e confermato dal giudice per le indagini preliminari a carico di Licciardi, considerata a capo dell’omonimo clan federato con l’alleanza di Secondigliano, il più potente cartello criminale campano.

Tre sorelle

Una struttura criminale “femmina”, nata dal matrimonio di tre sorelle. Anna, Maria e Rita Aieta sono sposate con tre boss di rango: Francesco Mallardo, detto “Ciccio ’e Carlantonio”; Edoardo Contini, detto “’o Romano”; Patrizio Bosti, braccio destro di Contini. E proprio per Maria Aieta, moglie di Contini, si spende Maria Licciardi.

Carmine Botta, ritenuto elemento di vertice del cartello criminale, a metà aprile, chiede aiuto a Licciardi per avere notizie sullo stato di salute della «moglie di Eduardo», ricoverata all’ospedale Cotugno di Napoli, «con la maschera, con il casco», con un sistema di ventilazione assistita perché colpita da coronavirus. La camorrista, tra le dieci donne più pericolose al mondo, subito si attiva, e chiama Dario Scapolatiello, «impiegato presso la Cosmopol, che svolge tra l’altro servizio di vigilanza privata presso l’azienda ospedaliera universitaria Federico II di Napoli».

Scapolatiello, dopo aver preso tutti i dati, rassicura Licciardi: «È un’infermiera che conosce proprio a te», riferendo della persona che avrebbe contattato all’ospedale Cotugno per avere notizie. «Dario questa (l’infermiera, ndr) mi deve fare una cortesia, lei deve parlare con i medici, se è il caso ce la prendiamo da là sopra, si finisce di rovinare, ce la portiamo a casa, le mettiamo l’ossigeno, chiamiamo un medico insomma... La cerchiamo di far stare meglio nell’ambiente familiare», dice Licciardi che progetta di far tornare a casa la parente. La camorrista chiarisce a Scapolatiello l’importanza della richiesta: «Dario ti voglio bene, fai conto che sto io là sopra». Pochi giorni dopo l’attività di intercettazione presso l’abitazione di Licciardi si interrompe, ma il fatto conferma la capacità del clan di avere le mani nella sanità, attraverso i rapporti con i dipendenti delle strutture ospedaliere. Il clan, infatti, ha avuto per anni il controllo dell’ospedale San Giovanni Bosco nel rione Amicizia, a Napoli.

Il racconto dei pentiti

Nomi e cognomi di medici e infermieri in contatto con gli uomini del clan sono coperti dagli omissis e dalle indagini in corso. Sono ancora tutti in servizio. Per capire il livello di compromissione della struttura e, soprattutto, come un ospedale possa diventare il polo logistico di un clan, bisogna rileggere il verbale di due pentiti che, in questi ultimi mesi, stanno parlando nel processo in corso presso il tribunale di Napoli contro gli affiliati alla potente famiglia criminale. Affiliati coinvolti in una inchiesta scattata nel giugno 2019. Una retata alla quale Maria Licciardi era riuscita a sfuggire rendendosi latitante prima di tornare quando, difesa dall’avvocato Dario Vannetiello, il tribunale del riesame aveva annullato quella misura. Pochi giorni prima era andata al San Giovanni Bosco per farsi curare prima di sparire. Dopo quel blitz, la prefettura aveva anche disposto una commissione di accesso, ma il ministero dell’Interno non ha ritenuto di sciogliere per camorra l’azienda sanitaria dopo gli strali del presidente della regione Vincenzo De Luca contro l’ipotesi azzeramento.

L’ospedale-risorsa

«Lavoravo nella ditta di pulizie, facevo parte del clan a trecentosessanta gradi. Le ditte all’interno sono gestite dal clan Contini. Negli anni in cui io sono stato assunto, c’erano i parenti di tutti i vertici che erano impiegati». A parlare così è il pentito di camorra Teodoro De Rosa che, insieme al padre Giuseppe, anche quest’ultimo collaboratore di giustizia, è stato ascoltato nel processo contro il clan. «Allora, dottorè, il novanta per cento delle persone che lavora all’interno dell’ospedale, parliamo del clan, erano persone che lo stipendio era dell’ospedale, ma noi favorivamo al clan. Personalmente, io ho lavorato non pochissimo, di più. Mio padre non ha mai lavorato. Mia mamma non ha mai lavorato», ha raccontato Teodoro De Rosa nell’esame del pubblico ministero Ida Teresi.

Ma un ospedale torna utile, non solo per i posti di lavoro, ma anche e soprattutto per altro. «L’ospedale a mano a mano si è ingrandito con altri reparti. A vari personaggi sono stati fatti dei piaceri per processi che si dovevano spostare, processi che si dovevano rimandare; si facevano dei ricoveri, ricoveravamo queste persone e si rimandavano questi processi», dice Giuseppe De Rosa. Il sistema funzionava così: «cercavamo la cortesia. Il medico metteva una diagnosi, qualcosa, e lo ricoverava o per una aritmia al cuore o per altre situazioni. L’avvocato si prendeva il documento che era ricoverato e così si rimandava questa causa».

Processi aggiustati, finti ricoveri erano solo alcune delle utilità offerte dall’ospedale. «Nel pronto soccorso venivano fatti i certificati falsi. Ad esempio, si prendeva una persona che aveva un motorino, un qualcosa, che non aveva perfettamente niente, e si faceva risultare compiacenti il medico e l’infermiere per tutto il triage, che lui praticamente aveva avuto un trauma cranico oppure aveva avuto una distorsione. Si andava poi in radiologia e si aggiustavano i documenti, prendendo le radiografie di altre persone. In alcuni casi, il sinistro si fa da zero alla fine, compiacenti i medici, infermieri, primari, reparti», dice ancora Teodoro De Rosa. «Infermieri, medici, si mettevano tutti a disposizione, dottorè, perché sapevano la provenienza, cioè quale era la provenienza, che era del clan», aggiunge De Rosa.

Medici a disposizione

Nelle carte dell’inchiesta che ha colpito il clan, nel giugno 2019, si parlava di «sinallagma». Un patto non scritto, cioè, un accordo tacito tra uomini dei clan e alcuni professionisti della sanità. Un scambio che si concretizzava in episodi di questo tipo: quando Raffaella Botta, figlia del boss Salvatore, ha bisogno di fare l’emocromo, chiede direttamente allo zio Angelo Botta di prendere appuntamento con il dottor Vincenzo Bassi, dirigente medico presso l’unità di medicina interna e di urgenza presso l’ospedale San Giovanni Bosco.

È così che Raffaella, la figlia del boss, «accede a prestazioni sanitarie specialistiche non seguendo canali istituzionali, non vi sono dubbi». Ci sono altri nomi.

«Altri medici a disposizione del clan sono il dottor Papaccio, pronto soccorso, che faceva referti falsi per truffare le assicurazioni. Faceva questo agli ordini e per conto di Salvatore Botta (legato al clan, ndr), che una volta l’ha picchiato per questi motivi».

È proprio nel pronto soccorso che si svolgono i maggiori affari degli affiliati, sia perché lì si fanno i referti falsi, sia «perché c’è l’interesse economico del clan dietro la gestione delle ambulanze», sempre secondo il racconto fornito dal pentito De Rosa. Il patto non scritto, però, comprendeva anche i favori chiesti dai medici al clan.

Come quella volta in cui il dottor Salvatore Papaccio chiama al telefono il suo interlocutore Angelo Botta, con il quale mostra una certa confidenza, e insieme suo nipote Vincenzo, per chiedere aiuto, «vieni subito, ma non venire da solo», riferisce al telefono il medico, perché due persone, due “bestioni”, lo stanno minacciando di picchiarlo.

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