In un convegno del 1984 su «Comunicazione e droga», Giuseppe De Rita, a capo del Censis, notava come, quando i giornalisti parlavano di “droga” lo facessero sempre usando toni allarmistici, sebbene «da anni fosse dimostrato che non solo non serviva a niente ma fosse anzi dannoso poiché utile soltanto a diffondere paure e pregiudizi che certo non hanno mai aiutato a risolvere il problema».

Da allora assai poco è cambiato da un punto di vista dello stile dell’informazione, anche se i quotidiani, di sostanze, se ne occupano molto meno e solo in relazione a fatti di cronaca. Eppure è strano: lungi dall’essere scomparso quello delle sostanze psicotrope è, a oggi, sicuramente uno dei consumi più diffusi in occidente (per non parlare di Russia, Cina o Iran dove si parla di una vera e propria epidemia di eroina in corso ormai da anni). Durante la pandemia anzi, da un punto di vista strettamente merceologico, è stato rilevato come non vi sia stata alcuna flessione nell’uso delle sostanze illegali. Ma, ripeto, i giornali ne hanno parlato solo in relazione a fatti di cronaca, o magari in conseguenza del grande successo che la serie Sanpa ha avuto nel gennaio scorso. Poi basta.

In questi giorni le parole “droga”, poi cocaina quindi eroina, sono tornate a occupare i titoli dei giornali in relazione alla morte dell’attore Libero De Rienzo.

Ho letto con attenzione tutto quello che è uscito sull’argomento, le cosiddette cronache, gli accorati articoli scritti dagli amici, cercando di capire in che modo fosse stata data la “notizia” del ritrovamento di una bustina di “polvere bianca” nel suo appartamento. Mi interessa perché il discorso pubblico sulle sostanze è uno dei temi su cui lavoro ormai da anni e così la costruzione sociale della figura del “drogato”. Ho scritto un libro su questo, dove, fra le altre cose, dico che non c’è niente di cui vergognarsi a essere drogati, o figli di drogati. Eppure lo stigma è intramontabile, e non, ovviamente, perché il mio libro avrebbe potuto incidere minimamente sul modo in cui si parla di sostanze, ma perché ormai se ne parla da tanti anni. Malgrado questo a oggi lo schema è, esattamente lo stesso messo in luce da De Rita nel 1984: allarmismo nei titoli, ma nessun tentativo reale di capire quello che accade. «Ipotesi shock», «l’ombra della droga», il tenore dei titoli è questo.

Cerchiobottismo

E poi interviste per bilanciare la brutta impressione che potrebbe fare la stessa parola “droga” sui lettori, probabilmente cresciuti in un convento di suore come quello che si vede in Tutti insieme appassionatamente, il cui unico problema nella vita deve essere stato cosa fare di Maria, la suora un po’ scapigliata che canta. Davvero, mi domando, leggendo, come se li raffigurano questo lettori, i giornalisti, perché li trattano da idioti ancor prima che da bambini da proteggere. Ma quale shock, ma quale ombra, ma di cosa parlano? Sospendiamo il giudizio su questo caso in particolare, su Libero De Rienzo, finché non ci saranno gli esiti delle indagini, e facciamone un discorso di metodo.

Il policonsumo di sostanze è così diffuso che dubito che non riguardi almeno per un grado di separazione, tutti: lettori e giornalisti. Eppure si parla di chi consuma sostanze come di un corpo estraneo alla società, un marziano, un reietto. Una delle testimonianze riportate da un quotidiano l’ho letta più volte perché non potevo credere che nel 2021 ancora si potesse pubblicare una cosa così: «Io l’ho visto in piazza Carpegna insieme a un africano che dicono venda droga, racconta Maria C., una pensionata 70enne, spero non sia vero». Vorrei rassicurare la signora Maria che anche se fosse vero, e pare non lo fosse, che questa notizia fosse falsa ecc ecc che anche chi abusa di sostanze in modo occasionale saluta i vicini, gioca coi bambini, è gentile, fa una vita normale. Non è un mostro.

Uno dei film più importanti interpretati da De Rienzo è Smetto quando voglio di Sydney Sibilia. Ora quel film non è solo bello, intelligente, divertente, ma racconta una cosa vera che nemmeno un giornalista ha notato: che il tema ormai da venti anni a questa parte è il poliabuso di sostanze legali e illegali. La “droga” non esiste, esistono le “droghe” e non tutte sono illegali.

Come conferma Claudio Cippitelli, sociologo: «Se c’è un portato di 50 anni di “guerra alla droga” è la presenza sul mercato mondiale di una farmacopea non ufficiale mai così vasta mai così diffusa. Cinquant’anni di “guerra alla droga” hanno significato, paradossalmente, la promozione di sostanze oggi diffuse più che mai ma soprattutto la loro moltiplicazione in termini qualitativi e quantitativi delle molecole che la compongono. Accanto a questo, a questa enorme cornucopia di sostanze diversissime e sempre nuove c’è il convincimento che questa farmacopea sia una risposta a problemi oggettivi. Noi incontriamo ragazzi che con lo stesso atteggiamento usano sostanze legali e illegali, questo dovrebbe venire insieme a una consapevolezza che invece non esiste. In pochissimi conoscono le conseguenze delle sostanze che consumano».

La bustina di polvere bianca, eroina, non dice niente né di chi la possiede né di chi la usa, e a volte nemmeno di chi la spaccia. La parola eroina evoca il drogato degli anni Ottanta, quello che va da Muccioli a San Patrignano, che ruba il borsello alla nonna per comprarsi la dose. Ecco, non è più così ormai da decenni. Oggi le persone a ogni livello sociale poli-consumano sostanze di tutti i tipi, dalla cocaina che si trova a due lire dappertutto e anche l’eroina ha un significato strumentale per superare momenti di difficoltà. Guardate il documentario Lontano da casa di Maria Tilli per piacere: ascoltate quello che dicono Caterina e gli altri ragazzi suoi coetanei. L’eroina per loro è una sostanza fra le altre, un farmaco, un lenitivo. Serve per dormire dopo lo sballo della cocaina, o della metanfetamina: prende il posto del sonnifero, toglie ansia, si accompagna all’antidepressivo regolarmente prescritto.

Dice Caterina: «L’eroina per quanto è stata brutta, per quanto è una roba schifosa che ti porta via tutto però m’ha fatto anche vedere che io senza non sapevo sta al mondo, m’ha fatto vedere degli aspetti di me, del fatto che l’unica cosa che cercavo era star bene con me stessa che quella sostanza era in grado di darmi anche se non era una cosa mia naturale, mi ha fatto capire quanto sono debole quanto sono fragile, quanto ho bisogno di aggrapparmi alle cose».

Le dipendenze di tutti

Ne parlo con Achille Saletti, storico dirigente di Saman. Mi fa l’esempio di George Bush J., eletto per ben due mandati pur ammettendo che, in più occasioni, lui è dovuto andare a curarsi per un alcolismo importante in due centri di aiuto e di recupero. Anche negli Stati Uniti il racconto sulle droghe che si dipana ormai da un secolo parla alla pancia delle persone, fa leva sulla pruderie, ha come sotto testo l’idea che «comunque te la sei cercata, sei colpevole». Però, dice Saletti «al tempo stesso il fatto che venga eletta una persona che ha questi problemi significa che viene anche interpretato il tema dell’assunzione delle sostanze e della dipendenza come fenomeno sociale largamente diffuso che può capitare a tutti. Noi invece in Italia questo secondo passaggio, cioè che fa parte degli accidenti straordinari o ordinari della vita consumare sostanze non l’abbiamo mai fatto». E per questo non riusciamo a parlarne in modo serio, a fare politiche serie, a occuparcene in modo serio.

La conferenza sulle droghe, che dovrebbe essere convocata dallo stato per legge ogni due anni, non viene convocata dal 2011.

Ogni politica di riduzione del danno è stata nei fatti depotenziata, azzerata: questo significa che se una persona sta male chi le sta accanto non può andare in farmacia a comprare il naloxone che è farmaco da banco salvavita perché non te lo danno.

Così diventa normale interpretare il diritto di cronaca o di informazione come il racconto allarmato di un caso che però non si cerca di spiegare in alcun modo.

Il fatto che ancora oggi, nel 2021, non si pensi a invertire questo paradigma anzi ci si batta il petto dicendo: «Noi dobbiamo raccontare le verità scomode» è paradossale. Di scomodo c’è solo la posizione di chi legge e si sente ancora una volta preso in giro, proprio perché il consumo integrato di sostanze legali e illegali oggi non solo è trasversale a tutte le classi sociali ma è di diffusione enorme fra persone che fanno una vita normalissima, talvolta anche di successo.

Cosa significa dunque ripetere in modo ossessivo è stata trovata una bustina?

Significa che sei hai una bustina sei un tossicodipendente, un “drogato”. Significa ribadire lo stigma, sempre lo stesso.

Che paura signora Maria, no?

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