L’andamento della prima parte della fase a gironi della Coppa d’Africa ha già spinto molti osservatori a considerare questa edizione come una delle migliori di sempre. Migliore perché equilibrata e imprevedibile.

In Costa d’Avorio non ci sono debuttanti e il livello medio di competitività delle nazionali di minor rango si è elevato a tal punto che assistere a risultati sorprendenti non è più una sorpresa. Se la Namibia ha ottenuto la sua prima vittoria in una fase finale contro la Tunisia e Capo Verde ha conquistato il successo più prestigioso della sua storia battendo un gigante come il Ghana è perché il calcio è un fenomeno globale.

Conoscenze, metodi di lavoro e, più lentamente, infrastrutture all’avanguardia stanno raggiungendo ogni angolo del continente africano.

La fusione tra gli insegnamenti dei professionisti occidentali, che per più di mezzo secolo hanno monopolizzato il ruolo di allenatore in Africa, e le specifiche caratteristiche dei singoli paesi ha portato nel corso del tempo alla formazione di stili di gioco ibridi e più prossimi alle peculiarità culturali delle diverse società che abitano il continente.

Oltre il football

L'obiettivo di queste nuove scuole di pensiero, nate per diletto e tradotte poi in vere e proprie squadre composte solamente da calciatori autoctoni, era allontanarsi dal “calcia e corri” tipico dei britannici, gli inventori del calcio moderno che hanno diffuso questo sport in Africa.

Le popolazioni locali sentivano la necessità di affermare la propria identità e il calcio era visto come uno strumento concreto per potersi liberare dal giogo del colonialismo e raggiungere l’indipendenza.

Durante la decade della decolonizzazione queste idee sono state alimentate e sfruttate da numerosi leader politici che avevano compreso la potenzialità sociale di questo sport e deciso di utilizzarlo come collante nazionale.

Stili riconoscibili

I modelli di gioco, però, non sono dei monoliti. Si sono evoluti e hanno cambiato costantemente forma.

Al giorno d’oggi i sistemi si stanno omogeneizzando ma è ancora possibile, come dimostra la Coppa d’Africa, individuare schemi e principi particolari.

Il primo lo ha ricordato Didier Drogba, leggenda del calcio ivoriano, in occasione di una sessione di interviste con la stampa. «Il calcio di strada è parte della nostra identità», ha dichiarato. Benché l'ex attaccante del Chelsea si riferisse alla Costa d’Avorio, la sua affermazione accomuna l'intero continente.

Giocare in strada, sulla sabbia o altre superfici imperfette ha favorito una migliore abilità nel controllo del pallone, tenacia, resistenza fisica e capacità di improvvisazione. Successivamente subentrano le specificità geografiche e le caratteristiche fisiche delle varie popolazioni. Ogni paese, dunque, ha sviluppato i benefici del calcio di strada in maniera differente. Partiamo dal Nordafrica. Algeria e Marocco sono storicamente conosciute per la produzione di calciatori tecnici e creativi.

Dover imparare a giocare in spazi stretti all'interno delle “medine”, le parti vecchie delle città nordafricane, costringe i ragazzi a tenere la sfera incollata al piede e a usare la testa per individuare il modo di superare l'avversario. I ct delle due nazionali, Djamel Belmadi e Walid Regragui, hanno saputo valorizzare questo aspetto andando alla ricerca di un maggior equilibrio tattico.

Il risultato è un calcio piacevole da guardare, ma allo stesso tempo efficace. Il discorso è simile per l'Egitto, che ha da sempre goduto di una disciplina superiore. Al momento, però, il tentativo di Rui Vitoria di aumentare la produzione offensiva per non lasciare Mohamed Salah in balia delle difese avversarie sta minando la solidità difensiva costruita dal predecessore Carlos Queiroz nel 2022.

L'eccezione che conferma la regola è la Tunisia, un paese in cui prevale la cosiddetta arte dell'arrangiarsi. Questo approccio alla vita si riflette nello stile di gioco di Jalel Kadri, che è conservativo e privo di fantasia. Non a caso la Tunisia è considerata l'”Italia africana”, in riferimento al catenaccio che contraddistingue le selezioni azzurre del passato.

Le più blasonate

Al di sotto della fascia del Sahel troviamo alcune delle nazionali più blasonate della Coppa d’Africa. Il Senegal campione in carica presenta un calcio molto diretto. Il ct Aliou Cisse ha ricordato che il popolo senegalese è di poche parole.

Per lui sono i fatti che contano e questo si traduce in una squadra concreta e molto cinica, che ha vinto la scorsa Coppa d’Africa segnando un solo gol nella fase a gironi. Consapevole di aver sacrificato un po’ il talento, però, Cisse ha introdotto due elementi di maggior qualità a centrocampo: Pape Gueye e Lamine Camara, l'indiziato numero uno per il premio di miglior giovane del torneo. In questo modo tutto l'onere della costruzione offensiva non ricade sulle spalle degli esterni offensivi Sadio Mane e Ismaila Sarr. Più a est, in Ghana, Camerun e Nigeria, rispettivamente quattro, cinque e tre Coppe d'Africa in bacheca, coesistono centinaia di gruppi etnici differenti.

Questa diversità culturale ha spesso portato i dirigenti federali a optare per un allenatore straniero che potesse essere superpartes e, allo stesso tempo, ha reso complicato trovare un'identità tattica ben precisa. Sono tutte e tre nazionali che in molte edizioni hanno fatto affidamento più sulle qualità individuali che sulla forza del collettivo.

Il Ghana sembra non poter prescindere dalle magie di Mohamed Kudus, che nella seconda gara contro l'Egitto ha realizzato una doppietta e ridato speranze di qualificazione alle Black Stars. Il ct della Nigeria, José Peseiro, aveva immaginato una squadra votata all'attacco, con soli due centrocampisti, ma ha dovuto presto fare marcia indietro per sopperire alle assenze in mezzo al campo.

Victor Osimhen, il calciatore africano dell'anno, ha detto di preferire il 3-4-3 con cui la Nigeria è scesa in campo nella vittoria contro la Costa d’Avorio perché permette di affiancargli Ademola Lookman e Samuel Chukwueze senza rinunciare alla compattezza. Uno degli esperimenti tattici più interessanti proviene dall'Africa centrale, più precisamente dalla Guinea Equatoriale.

Il ct Juan Micha ha ottenuto il patentino da allenatore in Spagna e sta portando avanti un processo di integrazione tra le caratteristiche fisiche del prototipo di calciatore equatoguineano e i principi del gioco palla a terra tipici del calcio spagnolo.

Questo è stato possibile grazie all'inserimento di numerosi giocatori binazionali che sono nati in Spagna, ben diciassette sui ventisette totali.

A proposito di nazionalità, per la seconda edizione consecutiva il numero di ct africani, oppure originari del continente, è superiore a quello dei ct stranieri. Quattordici contro dieci.

Gli addetti ai lavori ne sono soddisfatti, perché è più semplice per chi conosce le realtà locali e non deve affrontare alcuna barriera linguistica seguire le orme di Regragui, Cisse e Micha, costruire delle nazionali competitive e innalzare il livello della Coppa d’Africa.
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