Alessandra ha 38 anni quando una mattina, guardandosi allo specchio, vede un’ombra sotto il braccio destro. Prova a toccare ma non sente nulla. La sera, a letto, ritenta ed eccola: una pallina dura vicino alle costole, grande come una nocciolina. È cominciata così, come per migliaia di altre donne: un nodulo anomalo, il batticuore, la corsa dal medico e l’improvvisa scoperta di un cancro al seno. È il marzo del 2019, dopo due mesi Alessandra viene ricoverata per l’intervento: la diagnosi è severa e deve sottoporsi anche alla mastectomia. Tornata a casa, affronta le cure ormonali e la chemioterapia: è determinata, di tumore ne ha già sconfitto uno a vent’anni, non è una persona che si lascia abbattere facilmente. Ma ecco che capita l’imprevedibile: una pandemia che travolge il paese e chiude frontiere, scuole, imprese e blocca anche molti ospedali, costretti a sigillare interi reparti e a destinare uomini e macchinari all’emergenza sanitaria. In Italia non si parla d’altro che del pericolo di ammalarsi di Covid e tutto il resto sembra congelato.

«Qui da noi c’è un detto: “Se devi affogare, affoga in mare grande”. Per questo da Cosenza ho deciso di andare a farmi operare allo Ieo di Milano – racconta oggi Alessandra – È una catena di montaggio: prima di te c’è qualcuno, dietro di te c’è già qualcun altro. Un giorno ti operano e la mattina seguente sei già fuori, ti mettono i tubi per il drenaggio in una busta di cartone e te ne vai».

Tutto fermo

I problemi iniziano però a marzo con il lockdown totale. «Per il controllo annuale dovevo tornare a Milano con i risultati di mammografia, ecografia e altre analisi ma in Calabria era diventato impossibile trovare una struttura pubblica che le eseguisse – continua Alessandra – io ne avevo bisogno assolutamente per il 2 giugno ma i primi posti disponibili erano a novembre».

A marzo e ad aprile molte prestazioni sanitarie, considerate non indispensabili, si fermano. Fra queste, gli screening per la diagnosi precoce del tumore alla mammella rivolti alle donne fra i 50 e i 69 anni: a maggio, secondo i dati dell’Osservatorio nazionale screening, sono stati effettuati 472.389 mammografie in meno, il 54 per cento in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Un numero che nei mesi ha continuato a crescere, anche se più lentamente: a settembre 2020 si contavano infatti 610.803 esami in meno (meno 43 per cento) del 2019, che si stima corrispondano alla mancata diagnosi di 2.793 nuovi casi di tumore. Detto in altre parole, quasi tremila donne si accorgeranno tardi di essere ammalate, con conseguenze ancora difficili da quantificare in termini di mortalità ma certamente con maggiori costi dal punto di vista umano e medico.

Diagnosi tardive

«Diagnosi tardive significano certamente cure più invasive e più costose – spiega Oscar Bertetto, direttore del Dipartimento rete oncologica Piemonte-Valle d’Aosta – senza contare che siamo in ritardo anche con gli interventi chirurgici: a luglio 2020 ne abbiamo effettuati il 34 per cento in meno rispetto al luglio precedente e a ottobre il 21,5 per cento in meno. Solo ora si nota un lento recupero».

Il cancro al seno è la prima causa di morte oncologica fra le donne con quasi 13mila decessi nel 2017 (il 16 per cento di tutti decessi per tumore) ed è innegabile, conferma Bertetto, «che la ricaduta della sospensione degli esami di primo livello abbia avuto maggiori ripercussioni nel tumore alla mammella, in cui l’identificazione precoce è cruciale: su cento donne operate, 45 provengono dagli screening». Ai problemi oggettivi si è poi aggiunta la paura di essere contagiate, che ha spinto molte donne a rimandare i controlli periodici.

Recuperare gli screening perduti non è in ogni caso un problema da poco: l’Osservatorio ha calcolato che ci vorranno quasi quattro mesi per rimettersi in pari, a patto di non fare altri ritardi, che potrebbero rivelarsi fatali. «Sarà difficile fare miracoli, soprattutto in quelle realtà che erano già carenti prima del Covid – dice Paola Mantellini, direttrice dell’Osservatorio – fino a quando non otterremo l’immunità di gregge saremo costretti a mantenere dei ritmi più rallentati per garantire il distanziamento e la sanificazione degli ambienti. Per colmare i ritardi e per non aumentarli ulteriormente abbiamo urgente bisogno di risorse e di modelli organizzativi efficienti».

Pagano i deboli

Non proprio un gioco da ragazzi in un paese che fra la prima e la seconda ondata del virus è riuscito soltanto in parte a riorganizzare personale, attrezzature e posti letto in ospedale. A pagare le carenze del sistema sanitario sono soprattutto le categorie più vulnerabili e in cima alla lista ci sono, ancora una volta, le donne. Un’indagine condotta nel 2018 dalla Favo, la Federazione delle associazioni di volontariato in oncologia, fa una fotografia chiara della situazione: i pazienti oncologici più fragili, sia sotto l’aspetto economico che psicologico, abitano al sud e nelle isole, svolgono un lavoro casalingo, hanno fra i 35 e i 44 anni e – indovinate? – hanno un tumore alla mammella. «Temo che la crisi indotta dal Covid non farà che peggiorare la situazione – commenta Elisabetta Iannelli, segretaria generale della Favo e vicepresidente dell’Aimac, l’Associazione italiana malati di cancro – quando verrà meno il blocco dei licenziamenti le prime a perdere il lavoro saranno le persone malate o con una disabilità cronica, per non parlare delle difficoltà di chi non ha un reddito professionale autonomo».

Non morire

Uno scenario inquietante, che potrebbe portare le donne più povere, magari con carichi famigliari sulle spalle, a trascurare la propria salute, come riassume la scrittrice americana Anne Boyer nel suo folgorante Non morire, premio Pulitzer 2020: «Ci sono persone che si sentono male e non fanno niente per rimediare, ci sono persone che si sentono male e sottopongono i loro sintomi a motori di ricerca e si fermano lì. Poi ci sono persone che possono permettersi di far circolare i loro punti dolenti tra professionisti che offrono diagnosi contrastanti». Proprio analizzando la vicenda del suo cancro al seno, Boyer sottolinea «l’incredibile macchina del profitto del capitalismo, la distribuzione iniqua di sofferenza e morte secondo classi sociali». La malattia non è uguale per tutte: le donne nere, povere, single, disoccupate hanno molte più probabilità di morire di cancro rispetto alle altre. Se questo è certamente vero per gli Stati Uniti, che non prevede una copertura sanitaria pubblica, anche in Italia esiste un problema di discriminazione economica, che si aggrava nelle emergenze. «Sappiamo che lo screening è un grande riequilibratore sociale perché ha ridotto le differenze “di classe” fra chi si ammala di cancro – spiega Mantellini – oggi però bisogna capire se la pandemia ha di nuovo aumentato quel gap che la mammografia gratuita aveva contribuito a ridurre».

Un allarme che non riguarda soltanto gli screening per la popolazione sana ma anche gli esami obbligatori per chi segue un programma di follow up dopo l’intervento: molte donne si sono viste cancellare le visite specialistiche, rimandate a data da destinarsi o sostituite con un parere al telefono. «Gli ambulatori e i consultori sul territorio sono inaccessibili o ridotti al lumicino, chi come me doveva fare ecografia e mammografia ha dovuto rivolgersi a un centro privato», racconta Elisa, che con altre donne ha organizzato un presidio di protesta davanti all’ospedale ostetrico ginecologico Sant’Anna di Torino.

Medicina a distanza

«Leggere i referti a distanza non basta, un malato oncologico ha bisogno del contatto per sentirsi rassicurato», protesta Maria Grazia, operata al seno alla fine del 2018. La telemedicina, cioè la cura del paziente a distanza, si è imposta di prepotenza in periodo Covid ma ora rischia di far saltare il rapporto diretto medico-paziente e di diventare il palliativo di tutte le carenze organizzative a cui il sistema sanitario tarda a mettere mano. Maria Grazia nel marzo scorso si è già vista sostituire una visita di controllo con una telefonata e oggi, di fronte alla seconda proposta di consulto telefonico, ha detto di no e si è presentata comunque in ospedale.

«Mi hanno colpevolizzata per il rischio Covid, perché siamo in tante e non c’è posto per tutte – racconta – e questo è il risultato di trent’anni di tagli indiscriminati alla sanità». Al grido di “Ci vogliamo vive!” il movimento femminista Non Una di Meno ha organizzato una manifestazione davanti al Sant’Anna di Torino proprio per oggi, 15 febbraio, per denunciare l’uso indiscriminato della telemedicina e il ricorso al privato come soluzione ai ritardi e alle inadempienze del sistema sanitario pubblico. A Cosenza, anche Alessandra è stata alla fine costretta ad effettuare privatamente gli esami richiesti per la visita di controllo annuale allo Ieo. «Ho pagato 570 euro in totale per prestazioni che rientrano nell’esenzione per la malattia e che dovevano essere gratuite. È una cifra elevata per una famiglia monoreddito con tre figli come la mia», racconta con amarezza, «spero che non succeda di nuovo o non potrò più permettermi di curarmi».

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