Una misura di quanto la variante Delta sia capace di diffondersi tra la popolazione arriva dai risultati di un’indagine condotta a fine giugno in India su circa 30mila persone. L’indagine ha stimato che il 67 per cento della popolazione ha anticorpi contro SARS-CoV-2. A gennaio, prima che la variante diventasse dominante nel paese, questa percentuale era del 24 per cento. Bisogna ricordare che però la copertura vaccinale durante la terribile ondata che ha colpito il paese, con picchi di 400mila contagi e 4mila morti al giorno raggiunti all’inizio di maggio, era ancora molto bassa: solo il 13 per cento delle persone coinvolte nell’indagine erano vaccinate.

La scoperta

La variante Delta è stata individuata per la prima volta a dicembre 2020 nello stato indiano del Maharashtra ed è diventata dominante in India a metà aprile e in Inghilterra a metà maggio. È notevolmente più trasmissibile della variante Alfa, emersa in Inghilterra nell’autunno del 2020 e poi diventata dominante in tutta Europa alla fine di febbraio del 2021, che è a sua volta più trasmissibile della variante che ha causato la prima ondata dell’epidemia in Europa, quella della primavera del 2020. Se una persona infetta nella prima ondata, in assenza di misure di distanziamento sociale, contagiava in media tre persone, chi si contagia oggi con Delta trasmette in media il virus a otto persone.

Se già con Alfa la copertura vaccinale necessaria a stabilizzare il contagio era estremamente elevata, tra il 60 per cento e il 70 per cento dell’intera popolazione, con Delta questo traguardo è ancora più lontano, anche per i paesi che hanno vaccinato più di tutti, come Inghilterra e Israele e dove ora la variante Delta è responsabile della quasi totalità dei nuovi contagi registrati.

Proprio per questi motivi, i due paesi rappresentano un laboratorio importante per capire quanto i vaccini che abbiamo a disposizione siano capaci di proteggerci dalla Delta. Le stime di efficacia condotte sul campo sono estremamente più complesse di quelle che avvengono durante gli studi clinici. Ci sono molti fattori di cui tenere conto e la situazione è ulteriormente confusa dal fatto che la campagna vaccinale procede a ritmo sostenuto in parallelo all’epidemia.

Lo studio

Giovedì Public Health England, l’agenzia di salute pubblica inglese, ha pubblicato sulla prestigiosa rivista medica The New England Journal of Medicine uno studio che valuta l’efficacia dei vaccini Pfizer-BioNTech e AstraZeneca nel proteggere dall’infezione sintomatica causata dalla Delta. I risultati sono confortanti. Infatti, anche se la protezione conferita da una singola dose è notevolmente ridotta rispetto a quella che si osservava con Alfa (scesa da 49 per cento a 30 per cento per AstraZeneca e da 48 per cento a 36 per cento per Pfizer-BioNTech), l’efficacia di due dosi di vaccino rimane molto elevata (scesa da 75 per cento a 67 per cento per AstraZeneca e da 94 per cento a 88 per cento per Pfizer-BioNTech).

Questo vuol dire che se una singola dose di uno qualunque dei due vaccini riduceva di circa due volte il rischio di sviluppare un’infezione sintomatica con la variante Alfa, per la variante Delta la riduzione è di circa una volta e mezza. Al contrario, dopo due dosi il rischio si riduce sostanzialmente anche rispetto alla Delta: di tre volte con AstraZeneca (era quattro volte contro Alfa) e otto volte con Pfizer-BioNTech (era quasi 17 volte contro Alfa).

È utile ragionare su questi risultati anche in termini assoluti. I ricercatori hanno considerato quasi 15mila infezioni registrate dall’inizio di aprile a metà maggio, di cui circa un terzo attribuite alla Delta e due terzi alla Alfa. Tra le circa 9.700 infezioni con Alfa, 7.300 sono state diagnostiche in persone non vaccinate, 2.300 ad almeno tre settimane dalla prima dose di uno dei due vaccini, e 140 ad almeno due settimane dalla seconda dose. Tra le circa 5.900 infezioni con Delta, invece, 4mila sono avvenute in soggetti non vaccinati, 1.500 ad almeno tre settimane dalla prima dose e 340 ad almeno due settimane dalla seconda dose.

Per ciascuno di questi tre gruppi (non vaccinati, vaccinati con una sola dose, e vaccinati con due dosi) i ricercatori hanno costruito, a partire da diversi database sanitari, un campione di persone che hanno lamentato sintomi compatibili con Covid-19 ma che una volta testati sono risultati negativi (91mila tra i non vaccinati, 51.500 dopo la prima dose e 24mila dopo due dosi). Questo permette di tenere conto di una serie di fattori confondenti, per esempio del fatto che i vaccinati tendono a testarsi più di frequente. I ricercatori hanno così potuto calcolare la frequenza dell’infezione con Alfa nel gruppo dei non vaccinati e confrontarla con quella osservata nel gruppo di chi aveva ricevuto la prima dose o la seconda dose e hanno fatto lo stesso con Delta.

Confrontando questi rapporti i hanno stimato l’efficacia dei vaccini contro Alfa e contro Delta tenendo conto dell’età, del sesso, della provenienza geografica, dello stato socioeconomico, del livello di incidenza dell’epidemia al momento dell’infezione, dell’eventuale appartenenza a categorie a rischio, sia clinico (affetti da altre patologie) che occupazionale (operatori socio-sanitari o residenti in case di cura).

Sia con Alfa che con Delta, dunque, è possibile osservare un certo numero di infezioni anche in chi ha completato il ciclo vaccinale e questo numero aumenta insieme all’incidenza del contagio. Quando l’incidenza aumenta, il rischio di base di infettarsi aumenta per tutta la popolazione, vaccinata e non, e dunque anche se i vaccinati hanno un rischio ridotto rispetto ai non vaccinati questo rischio non è nullo. Inoltre, man mano che la copertura vaccinale cresce, anche il numero di infezioni nelle persone completamente vaccinate crescerà.

Il caso Israele

Diverse sono le indicazioni che arrivano da Israele. Secondo le stime preliminari annunciate dal Ministero della salute all’inizio di luglio, l’efficacia del vaccino Pfizer-BioNTech (l’unico autorizzato nel paese) nell’evitare l’infezione sintomatica sarebbe del 64 per cento (contro l’88 per cento delle stime inglesi). Tuttavia, il metodo utilizzato è meno accurato di quello inglese e numerosi esperti suggeriscono di aspettare l’analisi definitiva che dovrebbe arrivare nei prossimi giorni.

Nel breve periodo però è fondamentale guardare alla capacità dei vaccini di ridurre il rischio di andare in contro ai decorsi clinici gravi dell’infezione. Su questo punto le stime che arrivano da Inghilterra e Israele concordano che i vaccini siano efficaci nell’evitare forme gravi della malattia causata dalla Delta tanto quanto lo erano con Alfa. Lo stesso gruppo di ricercatori di Public Health England ha recentemente pubblicato un’analisi preliminare che stima un’efficacia nell’evitare il ricovero pari a circa il 94 per cento dopo due dosi di vaccino (anche se con un’incertezza piuttosto ampia, tra 85 per cento e 98 per cento). I ricercatori precisano infatti che il numero di casi e il tempo di osservazione è ancora troppo ridotto per ottenere una stima definitiva.

I dati inglesi mostrano che Delta ha la capacità di eludere la risposta immunitaria più di quanto non fosse capace Alfa, ma i vaccini offrono ancora una protezione sostanziale, sia verso l’infezione sintomatica sia verso la malattia grave. La Delta dovrebbe quindi servire da ammonimento. Il virus ha ancora spazio per evolvere sia guadagnando ancora in termini di trasmissibilità, sia evadendo maggiormente la risposta stimolata dai vaccini. La probabilità che emerga una variante con queste caratteristiche è estremamente difficile da stimare con precisione, sia con modelli matematici sia con esperimenti di laboratorio, ma di certo è proporzionale alla circolazione del virus.

Limitare la diffusione del contagio, procedendo con la campagna vaccinale, avviandola nei paesi dove di fatto non è ancora partita e osservando ancora misure di distanziamento sociale, è la nostra migliore opportunità per evitare che i vaccini a disposizione diventino armi spuntate.

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