«Amo quest’uomo: mangia come un nepalese». Il complimento di Binaya, nostro commensale assieme alla sua promessa sposa salentina Margot, aveva solo parzialmente a che fare con il menù.

Certo, ingozzarsi di interiora è abbastanza nepalese: la cucina newari, vale a dire dello storico gruppo culturale di abitanti del Nepal, ha una seria predilezione per le frattaglie, e raffinatissimi modi di prepararle. Ad esempio si soffia farina all’interno dei polmoni del montone, appena macellato, in modo da gonfiarli e fargli mantenere una consistenza compatta durante la frittura, a fettine, e si masticano con lo zenzero in salamoia.

Il midollo del bisonte viene incartato in piccoli ritagli di intestino, lunghi qualche centimetro, e poi tutto si frigge e si mangia come caramelle. Si frigge pure la lingua, che noi lombardi invece facciamo bollire e ora, dopo terza fetta, sono quasi convinto che abbiamo sempre sbagliato tutto.

Brutale raffinatezza

La cucina newari è raffinata e brutale, un ossimoro che somiglia un po’ al paese che l’ha generata, a quelle vie di Kathmandu dove un palazzo è un brutto casermone di cemento armato senza soffitto, un altro è crollato con il terremoto del 2015 ma quello di fianco, superstite, è un capolavoro di mattoni rossi intervallati da finestre, architravi, frontoni di legno scuro intarsiato da una casta di artisti e artigiani eredi degli artefici di tutte le Durbar Square, le spettacolari piazze reali, delle città della valle.

Il mio mangiare come un nepalese era riferito all’approccio all’utilizzo delle posate. Nessuno. Stavano lì intonse sul tovagliolo, come quelle di Binaya e a differenza di quelle delle nostre accompagnatrici. In Nepal si mangia con le mani. La mia tecnica, in realtà, era piuttosto rudimentale e approssimativa, lontana dalla perfezione balistica di quella del mio dirimpettaio.

Ha provato anche ad insegnarmi: le dita della mano destra afferrano una discreta quantità di baji, e dopo aver ruotato la mano di centottanta gradi lo lasciano cadere, aprendosi, sul palmo. Il baji è la base della piramide alimentare nepalese, e qualcosa che non avevo mai visto prima. È riso, lessato, lasciato asciugare, poi schiacciato fino allo spessore di mezzo millimetro e infine essiccato. Il pasto tradizionale newari è una montagnetta di baji con intorno qualche companatico, con una proporzione di quantità molto poco occidentale: tanto baji, che costa poco o niente, poco companatico, non credo di dover specificare che il Nepal è comunque uno dei paesi più poveri del mondo.

E quindi sulla mano destra, ora piena di baji, si appoggia un pezzetto di carne, un po’ di chutney di cetriolo, pomodori e arachidi, e poi la mano parte, veloce, in direzione della bocca spalancata, ma senza toccarla. Si ferma a due o tre centimetri dall’apertura, e la mano esperta fa in mondo che il cibo venga scagliato con precisione all’interno della cavità orale, senza impattare sulle labbra, senza sporcare, senza far casino. Perlomeno, così accadeva a Binaya. Io, dopo tre tentativi, avevo pezzi di baji sui capelli, una decina nelle narici, qualche centinaio sulla barba. Da lì in poi continuato a mangiare con le mani, ma come un bambino molto italiano e poco nepalese.

La cultura delle mani

In Nepal si mangia con le mani, come in India, in Sri Lanka e in Bangladesh, in Malesia e in Indonesia. Nei paesi arabi, in buona parte del medio oriente, in Africa. Un terzo della popolazione mondiale mangia con le mani, ma sembra sempre che l’uso delle posate, con le quali pure siamo in netta minoranza, dia una sorta di permesso di stigmatizzare il loro mancato utilizzo come, nel migliore dei casi, pittoresco e nel peggiore barbaro e primitivo. Ovviamente non è così, e dietro al mangiare con le mani c’è sempre una cultura, un codice e spesso anche un significato.

Le cinque dita giunte, che avvolgono il companatico con il pane come corpo intermedio, simboleggiano ciascuna uno degli elementi – spazio, aria, acqua, terra e fuoco – alla base delle teorie dell’Ayurveda, ed è proprio lì che, secondo gli indiani seduti a tavola, comincia la digestione e, più spiritualmente, la connessione del cibo con il corpo.

Quel corpo intermedio, pane per gli indiani, injera per etiopi, eritrei e somali, baji per i nepalesi e così via, accompagna ogni boccone tanto come mezzo per avvolgere le verdure o le proteine del caso, quanto per economia, il pane costa meno di tutto il resto, e alla fine come base, simbolica e materiale, della dieta quotidiana: tanta farina o riso, poco del resto. Alla fine, il Cristo non spezzava mica una coscia di pollo, e di certo non usava forchetta e coltello: anche lui mangiava come un nepalese.

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