Da Rimini a Lecce, da Ladispoli a Mazara del Vallo, senza dimenticare la laguna di Venezia, le nostre acque stanno imparando a conoscere un nuovo, fastidioso, inquilino. Il granchio blu – Callinectes sapidus il suo nome scientifico – originario delle coste orientali dell’Atlantico, ha fatto la sua comparsa nel mar Mediterraneo più di un decennio fa ma ora è una minaccia anche per la pesca e gli ecosistemi marini italiani.

Probabilmente trasportato fin qui nell’acqua di zavorra delle navi, questo crostaceo dalle chele azzure e largo fino a 20 centimetri, è una specie aliena vorace, che fa razzia di vongole, cozze, molluschi e piccoli pesci, oltre a bucare le reti degli impreparati pescatori.

Arrivato per caso, prospera grazie alle temperature sempre più alte dei mari. Le sue larve, che necessitano di almeno 15 C° per svilupparsi, hanno infatti trovato a queste latitudini condizioni ottimali. Il granchio blu è qui per rimanere dal momento che non trova predatori, ma allora che fare per contenerne la proliferazione?

La risposta al momento è una sola: portarlo in pianta stabile sulle tavole di case e ristoranti – bollito, al vapore o alla griglia – come già succede in Asia o in America. Più facile mangiare il nuovo ospite anche da noi che estirparlo, dicono gli esperti, e i cuochi sono concordi sulla sua resa nel piatto.

A Mazzorbo

Lo utilizza già da tre anni Chiara Pavan, chef insieme a Francesco Brutto dello stellato Venissa, sull’isola di Mazzorbo, nella laguna veneziana. «Un pescatore di Burano da cui ci serviamo un giorno ha cominciato a trovare più granchi blu nelle sue reti che moeche (piccoli granchi durante il cambio della muta) o granchi verdi. A quel punto era assurdo non usarli», dice.

Pavan, molto attenta ai prodotti del territorio come agli effetti del cambiamento climatico, abbraccia una visione realista dei mutamenti degli ecosistemi marini nostrani. «Mi sono detta: mangiamoli, sono così buoni e pieni di polpa. Nella catastrofe generale delle specie invasive ci è andata bene», ride.

Preparare e servire granchi blu è stato però un esperimento anche per lei perché all’inizio non c’era molto mercato, ammette la chef, ma il crostaceo si è poi rivelato un prodotto versatile oltre che gustoso. «Quest’anno abbiamo fatto dei ravioli e una zuppa di granchio blu, ma l’abbiamo anche fritto e usato come gelatina», racconta.

Utilizzare questa nuova specie, secondo Pavan, esemplifica bene il modo di intendere la cucina della coppia del Venissa: servire quello che c’è e non quello che non esiste. «Non ha senso proporre prodotti della tradizione che non si trovano più o che hanno prezzi esorbitanti, come anguille o seppioline», spiega. «Da questo punto di vista mangiare granchio blu vuol dire semplicemente mangiare in modo contemporaneo».

Pesca ecologica

Sebbene Pavan non sia più tra i pochi a usarlo, viste le molte video ricette che si trovano in rete o i frequenti cooking show a tema, rendere il vorace crostaceo “americano” un prodotto mainstream nel nostro paese è però ben altra cosa come sa Carlotta Santolini, giovane biologa marina riminese e fondatrice nel 2021, insieme a quattro amiche, della società benefit Mariscadoras.

L’obiettivo di Santolini e socie, che si ispirano con il loro nome alle donne di mare galiziane, è  nientemeno quello di introdurre il granchio blu nella dieta mediterranea, facendo divulgazione e incentivandone il consumo. Non una sfida facile: «Fino all’anno scorso nessuno lo pescava», dice, «e chi lo faceva lo ributtava in mare» non sapendo che farsene. Mariscadoras, con il suo progetto Blueat, interviene per offrire formazione sulle opportunità di business rappresentate da questa e altre specie aliene. Il granchio blu, poi, può essere pescato in modo ecologico e sostenibile attraverso le nasse, gabbie fisse di metallo che la società romagnola cerca di fornire alle comunità di pescatori, soprattutto nell’Adriatico.

Un altro problema è rappresentato dall’oscillazione del prezzo del granchio, che da pochi euro può arrivare anche a 15 o 30 al chilo, a seconda della domanda. La startup, stringendo accordi con le cooperative, si impegna a comprarlo a prezzo fisso, in modo tale che queste non rimangano con crostacei invenduti, per poi rifornire la ristorazione e la Grande distribuzione organizzata (Gdo). A dicembre, per facilitare l’approccio del grande pubblico a questo alimento, in partnership con l’azienda di trasformazione mestrina Tagliapietra e figli, Mariscadoras ha lanciato nei supermercati lombardi Italmark due sughi di granchio blu, uno bianco e uno rosso, che presto si potranno trovare anche su altri scaffali in giro per l’Italia. 

Commercializzare

Portare in tavola il granchio blu è la sola risposta a questa invasione anche per gli operatori di settore come Vadis Paesanti, vice presidente di Fedagripesca-Confcooperative Emilia Romagna. L’alleanza delle cooperative il mese scorso ha lanciato un appello al Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste (Masaf) per inserire il crostaceo tra le specie ittiche di interesse commerciale.

Di fatto il granchio blu si vende già e i volumi stanno aumentando di anno in anno, spiega Paesanti, ma l’aggiunta a questo elenco formalizzerebbe finalmente il processo in corso, oltre a rendere più visibili le istanze di chi lo pesca. Paesanti auspica quindi una «commercializzazione su ampia scala» del granchio blu come  «unica arma per limitare i danni e anzi farlo diventare una fonte di reddito, dando vita ad una vera e propria filiera come in altre parti del mondo. Ne beneficerebbe direttamente la biodiversità».

L’esperienza tunisina

Tra i progetti italiani per valorizzazione il granchio blu c’è chi cerca di imparare proprio dall’altra sponda del Mediterraneo. «La Tunisia pesca ed esporta già grandi quantità di granchio blu, noi ancora no, perché questa invasione è tuttora poco conosciuta e non è vista come un problema in futuro».

A dirlo è Angelita Marino, project manager di Bleu Adapt, un’iniziativa transfrontaliera che unisce il Distretto della pesca di Mazara del Vallo e il paese nordafricano, accomunati dallo stesso ospite indesiderato. Sulle coste africane il problema si è presentato prima che in Italia e la Tunisia, nel constrastarlo, ha beneficiato come altri paesi del sostegno dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao). «Dalla loro esperienza dobbiamo imparare a trasformare questa specie aliena in un prodotto apprezzato e quindi in una risorsa, ma serve prima stimolare la domanda», aggiunge Marino.

Un problema che la Tunisia non ha, grazie anche all’export: secondo la Fao, le esportazioni tunisine di granchio blu a maggio 2021 si attestavano a 2.090,9 tonnellate, per 7,2 milioni di dollari, numeri più che raddoppiati rispetto alle 796,1 tonnellate dello stesso periodo del 2020 che erano valse 3,1 milioni di dollari. Il crostaceo è ormai così popolare che a ottobre nell’arcipelago di Kerkennah si è svolto anche il primo Festival internazionale dei granchi blu, che qui arricchiscono piatti tipici come il cous cous e il brik. Su questa scia a dicembre anche a Blue Sea Land, la fiera ittica di Mazara, diversi appuntamenti sono stati dedicati al granchio blu, coinvolgendo cuochi e studiosi.

Il mercato americano

Se in Sicilia si punta per il momento a sviluppare la consapevolezza sul nuovo tipo di granchio e una filiera corta che coinvolga gli stakeholders locali, Mariscadoras guarda anche oltreoceano. Dopo l’ingresso sul mercato nazionale a marzo le cinque socie saranno a Boston per aprire quello americano.

Negli Stati Uniti, infatti, il crostaceo che ora infesta le nostre coste è mangiato in grandi quantità, ma non è più diffuso come un tempo, sostituito da quello verde. Importato dall’Italia, il granchio blu potrebbe concludere la sua parabola e tornare a casa, in pentola, aiutando così i nostri mari a tenere sotto controllo il loro prelibato invasore.

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