Fino a quando il segreto bancario è rimasto in piedi, il gioco era facile. Al cliente italiano bastava andare a Lugano, prelevare il necessario e tornarsene in patria, oppure trovare qualcuno che lo facesse per lui. Bisognava solo evitare di farsi fermare alla frontiera dai finanzieri. Ma quando la Svizzera ha iniziato a scambiare le proprie informazioni bancarie con gli altri paesi, il meccanismo si è inceppato. Restituire ai clienti i soldi mandati all’estero con i giri di fatture gonfiate è diventato un rompicapo.
Banca Cramer, istituto di credito elvetico, controllato dal gruppo finanziario zurighese Valartis e dalla Norinvest Holding di Massimo Esposito, ha trovato la soluzione in Giancarlo Cervino. «Il più grande errore della mia vita», l’ha definito il professionista italiano nel corso del processo per associazione a delinquere e riciclaggio, al termine del quale ha subito una condanna in primo grado a sei anni. Grazie a lui, dice Cervino, la banca svizzera è riuscita a fornire ai clienti la continuità del servizio. Soldi frutto di evasione riportati in Italia, con consegna a domicilio. La soluzione per aggirare le nuove regole? Un gruppo di cittadini cinesi. Con tanto cash a disposizione.

La Cassazione sui 24 milioni

A fine luglio è stata depositata la sentenza della Cassazione sul ricorso proposto da Banca Cramer. L’istituto, finito sotto indagine della procura di Milano con l’accusa di aver aiutato a ripulire soldi frutto di reati fiscali, aveva chiesto ai giudici di ultima istanza di scongelare la cifra sottoposta a sequestro preventivo perché considerata frutto di riciclaggio: 22,4 milioni di euro, più 1,5 milioni di dollari. La Corte di Cassazione ha detto no. E motivando il suo diniego ha spiegato i termini della faccenda.
«La banca Cramer», scrive la Cassazione citando il tribunale di Milano, che in sede di riesame aveva già dato torto all’istituto, «è stata come una sorta di contenitore nel quale sono confluiti e transitati i flussi di denaro provento dei delitti di frode fiscale e di appropriazione indebita, che grazie ai vari passaggi su conti estero su estero, ivi compresi i conti correnti aperti presso la banca, è stato trasformato, con conseguente occultamento della sua origine illecita».

Dal punto di vista giuridico, la novità della sentenza della Cassazione sta nel fatto di aver identificato come cifra da sequestrare tutta la somma riciclata, cioè circa 24 milioni di euro, e non solo il profitto ottenuto dalla banca amministrando quei soldi, come chiedevano invece i legali della Cramer. Per chi osserva i fenomeni di criminalità finanziaria, però, l’aspetto interessante è anche un altro: il gioco dei vasi comunicanti tra Italia, Svizzera e Cina. Il tutto sotto gli occhi di una banca, la Cramer, che si fregia di essere monitorata dalla Finma, l’Autorità svizzera di vigilanza sui mercati finanziari.

Il sistema

I reati contestati a Cervino vanno dal 2011 al 2018, un lasso di tempo utile per osservare da vicino come l’industria bancaria svizzera, nel tentativo di adeguarsi alle nuove leggi senza perdere clienti, ha cambiato pelle. La fine ufficiale del segreto bancario svizzero è datata 2017, ma nel periodo precedente la storica arma dell’economia elvetica si è lentamente sgretolata.

A partire dall’inchiesta della magistratura statunitense su Ubs, nel 2009, primo tassello di un domino rimasto immobile per secoli. Nel corso degli interrogatori con la procura di Milano, Cervino ha spiegato com’è cambiata passo passo la strategia di adattamento alle nuove regole: «Siccome si cominciava a parare di scambio di informazioni tra l’Italia e la Svizzera, le banche svizzere effettuavano questo servizio a tutela dei clienti: trasferivano alcuni conti o meglio, quasi tutti, presso le loro filiale di Bahamas. Il prelievo poteva essere effettuato direttamente in Svizzera, come se il cliente si trovasse alle Bahamas».

Questa è stata la prima accortezza. Quando però, l’1 gennaio del 2017, la Svizzera ha abrogato il segreto bancario aderendo al nuovo accordo con l’Ue e allo scambio automatico di informazioni fiscali con l’Italia, neanche il trucco delle Bahamas bastava più.

Già ad agosto del 2015 molte banche della Confederazione smettono di offrire questo servizio. «A quel punto», ha raccontato Cervino a verbale, «una serie di dirigenti di cui sono disposto a fare i nomi, mi hanno chiesto esplicitamente se questo servizio potevo farlo io».

I nomi Cervino li ha fatti davvero: sono quelli di Emilio e Massimo Bosia, due fratelli che rivestivano fino al 2017 i ruoli di vicepresidenti della Cramer. Anche loro, con altre dieci persone, sono stati indagati dalla procura per il riciclaggio dei 24 circa milioni di euro. La banca, però, formalmente non voleva avere nulla a che fare con Cervino.
Una cautela che il collegio del Tribunale di Milano presieduto da Carla Galli ha definito «quantomeno curiosa», concludendo che sul riciclaggio milionario «non sembra credibile una non consapevolezza da parte dei vertici dell’istituto».

Nel contratto di consulenza tra Cervino e la Cramer, infatti, il commercialista si impegna a «non dare l’impressione, nei confronti di terzi, di agire quale rappresentante della Banca...non dare l’impressione ai clienti che è alle dipendenze della Banca, oppure è un rappresentante ufficiale o un mandatario della Banca», si legge nella sentenza. Ma perché questo bisogno di specificare che Cervino non rappresentava la Cramer?

Banca informale cinese

Alla base della necessità di riportare soldi in Italia c’era una grossa frode fiscale, una delle tante realizzate da imprese e professionisti. In questo caso la Cramer era la banca d’appoggio, secondo l’inchiesta del pm Paolo Storari del nucleo di polizia economico finanzaria della Gdf.

A voler evadere il Fisco erano diverse aziende italiane medio piccole, clienti di Cervino e del suo principale sodale, Massimo Alvares.
Per pagare meno imposte, le aziende italiane potevano scegliere due strade: l’aumento fittizio dei costi, tramite fatture (finte) pagate a società straniere; oppure la sotto-fatturazione, spostando gli utili nelle casse di una società straniera, terza ma in realtà sempre nella disponibilità del gruppo.

In un modo o nell’altro, i soldi partivano dalle aziende italiane, finivano in Svizzera sui conti della Cramer aperti da società solitamente austriache, poi facevano qualche giro tra Cipro e le Bahamas e tornavano in Svizzera. Fino al 2015 il passaggio finale, quello del rientro in Italia in contanti, veniva fatto attraverso la frontiera. Poi è arrivata la Cina.

Il sistema a grandi linee è simile a quello dell’hawala, utilizzato spesso – hanno dimostrato varie indagini giudiziarie – per finanziare il terrorismo islamico. In altre parole una banca informale, con grande disponibilità liquida sparpagliata nel mondo. I soldi dei clienti di Cervino andavano via bonifico dalla Svizzera alla Cina. E lì si fermavano.
Nel frattempo in Italia il commercialista otteneva la stessa cifra appena bonificata da cittadini cinesi non meglio specificati. Nell’ordinanza del tribunale di Milano e nella sentenza della Cassazione c’è solo un passaggio dedicato a loro. È preso dall’interrogatorio nei confronti di uno degli indagati, Alvares, che li descrive come «dei cinesi che avevano cash in nero che gli avanzava».

Non è chiaro se la procura abbia approfondito questo aspetto, ma viste le somme sequestrate sui conti della Banca Cramer, di cash in nero quei cinesi dovevano averne a disposizione davvero tanto.

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