«Mi scuso in anticipo con le parti civili di questo processo perché la requisitoria che mi accingo a fare certamente non sarà adeguata a quella che sarebbe dovuta essere la conclusione di un processo di questa portata». È iniziata così la requisitoria del pm della procura di Caltanissetta Stefano Luciani, nel processo sul depistaggio della strage di via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. 

  • Il processo vede imputati tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa nostra. I tre ex componenti del gruppo "Falcone Borsellino", assistiti dagli avvocati Giuseppe Panepinto e Giuseppe Seminara, sono ritenuti responsabili di aver indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino, un «delinquente di borgata» come lo ha definito il pm Luciani, ad autoaccusarsi del furto della Fiat 126 usata per l’attentato a giudice Borsellino. Lo avrebbero fatto mediante minacce, pressioni psicologiche e maltrattamenti.
  • «È un processo – ha proseguito il pm – che si è celebrato in 70 udienze, sono stati escussi oltre 112 soggetti, con oltre 4.900 pagine di trascrizioni. Non sto qui certamente a sottolineare, benché certamente parliamo di imputazioni precise nei confronti di soggetti ben determinati, le implicazioni ulteriori che ha questo processo. Certamente meritava una discussione diversa da parte del pubblico ministero»
  • In quello che il pm ha definito «il più grande depistaggio della storia italiana», Vincenzo Scarantino fu definito un «boss mafioso», in una nota del Sisde, uno dei due rami dei servizi segreti italiani fino al 2007. Recluso nel carcere di massima sicurezza di Pianosa nel 1992 e condannato a 18 anni di carcere, nel 1998 ammise di non aver compiuto il furto. Nel 2007 le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che ammise di essere stato lui stesso l’autore di quel furto, valsero a scagionarlo, gettando luce sul depistaggio compiuto. 

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