Le vicende di mafia si rincorrono in eterno, si ripetono ossessivamente e non rivelano mai nulla di inedito. La trama è sempre quella e anche i protagonisti si confondono.

Matteo Messina Denaro e Totò Riina, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Pietro Aglieri, i Madonia e i Santapaola.

Mafiosi che per lungo o per lunghissimo tempo, decenni, si sono dati e con successo alla clandestinità. Le loro facce abbiamo imparato a conoscerle sul bollettino dei ricercati del ministero dell’Interno, uomini in carne ed ossa trasformati in schede scolorite.

E più durava la loro latitanza e più venivano considerati intoccabili. Miti, per il popolo di mafia.

Il potere che protegge

La differenza più profonda fra la criminalità comune e la criminalità mafiosa è evidente: la prima ha sempre vissuto ai margini della società ed è sempre stata combattuta dal potere, la seconda ha sempre vissuto dentro la società ed è sempre stata protetta dal potere.

Rappresentato da sindaci di piccoli e sperduti paesi e da senatori della repubblica, capitani d’industria, governatori di regione, pezzi grossi in divisa, in Italia è finito sott’accusa per connivenza con il nemico persino un uomo politico che per sette volte è stato presidente del consiglio e per ventuno volte ministro.

Tutto scritto, agli atti. Così si capisce anche il perché uno come Messina Denaro abbia potuto fare il ricercato per trent’anni e un altro, come Provenzano, sia scomparso nel 1963 per riapparire nel 2006.

Eppure c’è ancora meraviglia quando si racconta la storia dell’imprendibile boss di Castelvetrano, c’è incredulità intorno alla sua fuga a tratti indisturbata.

Una spiegazione, in verità non molto originale, l’ha data il procuratore capo della repubblica di Palermo Maurizio De Lucia facendo intendere che, in Sicilia, c’è stato «un sostegno della borghesia mafiosa» alla sua latitanza. Con tutto il rispetto, non è che sia una grande novità.

Gli eredi dei grandi boss

Sulle colonne di Repubblica, ieri mattina, il professore Isaia Sales, saggista raffinato e studioso delle mafie, ha ricordato che, per indicare la rete di favoreggiamento al di fuori dell’organizzazione criminale, il termine “borghesia mafiosa” è stato coniato negli anni Settanta dall’intellettuale siciliano Mario Mineo e rilanciato negli anni Ottanta dal sociologo Umberto Santino.

Vero, però si potrebbe fare un triplo salto all’indietro citando anche Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino che già nel 1876 scrivevano «dei facinorosi della classe media» nella loro celebre inchiesta sulle Condizioni politiche e amministrative della Sicilia.

Cosa altro erano i facinorosi della classe media di quasi centocinquant’anni fa se non gli antenati degli odierni esponenti della borghesia mafiosa? La trama, dicevamo all’inizio, è sempre la stessa.

Dando per scontato che la struttura militare della Cosa nostra è stata disarticolata, oggi (forzando, ma neanche troppo) potremmo aggiungere qualcosa che ci aiuta a intuire e a decifrare la nuova realtà criminale: il pericolo non viene più certo dalle borgate, oggi la mafia che comanda è quella che proprio viene chiamata borghesia mafiosa.

Conclusa la caccia ai latitanti delle generazione stragista, restano i complici che probabilmente hanno in mano anche gli immensi patrimoni dei vecchi boss. Sono loro che regnano in Sicilia da quando i Corleonesi hanno perso la guerra.
In quest’ultimo quarto di secolo un reticolato ha assicurato soccorso a quei grandi boss. Medici, notai, commercialisti, amministratori comunali, burocrati regionali, ingegneri, avvocati, professori universitari, consulenti.

In ogni inchiesta giudiziaria è saltato sempre fuori il nome di un insospettabile che, insospettabile, alla fine non era mai. Si scoprivano sempre legami antichi, incroci familiari,  sepolte pendenze giudiziarie.

Il “supporto” offerto ai boss della Cupola c’è sempre stato e sempre con le stesse modalità, venuti meno i primi sono emersi prepotentemente gli altri. Soprattutto nel mondo degli affari. Sono certi imprenditori che hanno raccolto il testimone, sono loro i personaggi che muovono le fila di una Cosa nuova.

La “manutenzione” del latitante

E poi c’è l’altra faccia del favoreggiamento ai superstiti della vecchia guardia, la “manutenzione” quotidiana del latitante. A cominciare dalle cose più semplici, le carte d’identità.

Matteo Messina Denaro, alias Andrea Bonafede nato a Campobello di Mazara, provincia di Trapani il 23 ottobre 1963, residente in via Marsala 54, di professione geometra, altezza metri 1,78, calvo, occhi castani, segni particolari nessuno, documento rilasciato l’8 febbraio 2016, scadenza 23 ottobre 2026.

Non aveva una carta d’identità come questa, contraffatta alla perfezione, anche Bernardo Provenzano nei suoi ultimi anni di latitanza? Per tutti era Gaspare Troia, documento che gli aveva fornito personalmente il sindaco di Villabate Francesco Campanella. Valido per l’espatrio.

Perché il vecchio Bernardo, nel 2003, doveva necessariamente andare in Francia per un’operazione alla prostata: “Monsieur Troia” fu ricoverato per diciannove giorni e diciannove notti nella stanza numero 7 de La Clinic de la Ciotat, a una quarantina di chilometri da Marsiglia sulla strada per Tolone.

Le malattie e il destino

Malattie che uniscono i destini. Provenzano cancro alla prostata, Matteo cancro al colon. Gli ospedali sono luoghi che, più di altri, hanno raccontato da sempre i segreti di mafia.

Le cartelle cliniche della “Pasqualino e Noto” di Palermo, sulla vita di Totò Riina e dei componenti della sua famiglia, ha svelato più di vent’anni di indagini.

Lì, in una palazzina di via Dante, a poche centinaia di metri dal teatro Politeama, il 19 dicembre 1974 è nata Maria Concetta, la prima figlia di Totò e di Ninetta Bagarella.

E sempre lì, alla clinica "Pasqualino e Noto” sono nati il 21 febbraio 1976 il secondogenito Giovanni Francesco, il 3 maggio del 1977 il terzogenito Giuseppe Salvatore, l'11 novembre del 1980 Lucia.

L’ostetrica era sempre la stessa, Rosa Gelfo. La firma del medico sul certificato di nascita era sempre lo stesso, Antonio Rizzuto dell’azienda sanitaria numero 58.

Naturalmente i quattro figli furono registrati all’anagrafe come Riina, il padre era alla macchia dal giugno del 1969. Un papà fantasma. Latitante e liberissimo.

Quando la guerra di mafia doveva ancora esplodere, lo zio Totò viveva con tutta la famiglia in una villetta nella borgata dei Pagliarelli, sulla strada che sale verso il parco di Altofonte.

Andava a cena al ristorante La Nave, girava senza problemi per Palermo. Circondato dall’omertà, assistito dalla sua gente, un piccolo grande popolo di amici disposti a tutto pur di tenerlo al riparo. Fino a dopo le stragi, fino a quando qualcuno se l'è venduto. Preso anche lui nella sua Sicilia, in una villetta alla periferia di Palermo.

Tutti presi in Sicilia

Come tutti gli altri superboss della Cosa Nostra, salvo un paio di eccezioni. I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, arrestati nel gennaio del 1994 dopo una spiata mentre entravano nel ristorante Gigi il Cacciatore a Milano.

E Giuseppe Madonia da Caltanissetta, trovato nel settembre del 1992 in un paesino alle porte di Vicenza. Tutti gli altri passeggiavano nel cortile di casa. Il territorio che protegge, il medico amico alla bisogna, le auto pulite, le vedette, i vivandieri.

Leoluca Bagarella l’hanno individuato nel giugno del 1995 al centro di Palermo, nel quartiere Malaspina, davanti a un palazzo presidiato dai soldati dei Vespri Siciliani dove abitavano i procuratori Giuseppe Pignatone e Guido Lo Forte.

I vicini lo conoscevano come “il signor Franco”. Giovanni Brusca è finito in trappola nell’agrigentino, in contrada Cannitello, il mare di Favara. Nitto Santapaola si nascondeva a Mazzarone, le campagne intorno alla sua Catania, fino al maggio del 1993.

Pietro Aglieri aveva residenza fino al giugno 1997 in un covo – con montato anche un altare in una stanza e con un frate carmelitano che celebrava messa solo per lui ogni mattina –  a Bagheria.

Bernardo Provenzano, dopo quarantadue anni di latitanza, record assoluto, era rintanato in un casolare a cinquecento metri in linea d’aria dalla sua abitazione nel cuore di Corleone.

Tutti scivolati nella rete subito dopo o qualche anno dopo le stragi. Prima stavano sereni, tranquilli. Come Matteo Messina Denaro, per cinque anni consecutivi inserito dalla rivista americana Forbes fra i dieci criminali più ricchi del mondo, beato fra gli ulivi di Castelvetrano e Campobello di Mazara. Chissà se sarà proprio lui a stupirci, a parlarci della “borghesia mafiosa“?

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