I nostri nonni, quando raccontavano che ai loro tempi “si faceva la fame”, quasi sempre si riferivano al periodo della seconda guerra mondiale, o quello appena successivo. Benché anche prima della guerra l’Italia fosse un paese molto povero, soprattutto nelle sue aree rurali, il conflitto aggravò considerevolmente la situazione, portando fame e miseria nelle case di milioni di persone.

Guerra e fame sono da sempre strettamente connesse, e l’insicurezza alimentare è una delle conseguenze dei conflitti armati che ancora oggi colpisce più duramente chi vive in zone di guerra. Basti pensare che alcune tra le più gravi crisi alimentari in corso nel mondo – in Afghanistan, Myanmar, Sudan, Somalia, Siria, Yemen e Palestina – sono state provocate proprio dalla guerra. Secondo un rapporto del Food Security Information Network, nel 2022 117 milioni di persone versavano condizione di grave crisi alimentare per colpa dei conflitti armati: un numero che corrisponde a quasi la metà di tutte le persone in stato di grave insicurezza alimentare nei 58 paesi presi in considerazione dallo studio.

Circolo vizioso

Ma i paesi colpiti più direttamente dall’insicurezza alimentare provocata dalla guerra sono spesso quelli in cui si combattono conflitti poco raccontati dalla stampa occidentale. Si tratta di paesi molto poveri, le cui economie sono basate sull’agricoltura e quindi più esposte ai danni provocati dalla guerra, dato che la maggior parte degli scontri armati e della distruzione avviene in territori rurali.

Le perdite degli agricoltori comportano una compromissione delle catene di approvvigionamento, una diminuzione dell’offerta di beni alimentari e quindi un aumento di prezzi che a sua volta provoca ulteriore insicurezza alimentare. Questo può innescare un vero e proprio circolo vizioso guerra-fame: il conflitto provoca insicurezza alimentare, questa crea sofferenza e malcontento tra la popolazione, che a sua volta si trasforma in disordini sociali. Ciò rischia di prolungare i conflitti, innescare nuovi scontri e quindi compromettere a lungo termine la stabilità di un paese.

La fame come arma

Soprattutto negli ultimi anni, alcuni accademici hanno iniziato a occuparsi più a fondo di questo tema, indagando anche gli aspetti meno evidenti. Uno dei più drammatici è l’utilizzo dell’insicurezza alimentare come arma di guerra, con l’obiettivo di sterminare le popolazioni nemiche. Nel 2018 il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità una risoluzione che per la prima volta ha definito questa strategia un crimine contro l’umanità, chiedendo a chi è in guerra di non colpire scorte alimentari, strutture agricole, mercati e catene di approvvigionamento, e di non impedire l’accesso degli aiuti umanitari ai territori in crisi.

Nonostante ciò – e nonostante la possibilità degli eserciti di avvalersi di mezzi militari sempre più tecnologicamente avanzati che permetterebbero di ridurre al minimo le perdite civili – queste tattiche sono tuttora ampiamente utilizzate.

Il Tigray

Un caso piuttosto eclatante, anche se poco raccontato, è la guerra del Tigray, il conflitto di natura etnico-politica combattuto dal 2020 al 2022 tra il governo federale dell’Etiopia e gruppi separatisti del Tigray, una regione nel nord dell’Etiopia. Nel corso dei due anni di guerra, il governo etiope ha posto un vero e proprio assedio alla regione, distruggendo e saccheggiando terreni agricoli, uccidendo bestiame, e bloccando militarmente l’accesso a persone e beni alimentari.

Quasi la totalità dei cinque milioni di abitanti della regione si ritrovò in una situazione di carestia forzata, e un numero ancora oggi indefinito di questi perse la vita. Nonostante la fine della guerra, il Tigray si trova ancora oggi in una situazione di emergenza alimentare, aggravata da un lungo periodo di forte siccità. In tempi recenti, altri casi di utilizzo della fame come strumento di guerra si sono verificati in Myanmar, Yemen, Siria, Sud Sudan e nella Repubblica Centrafricana.

Nei conflitti che hanno coinvolto le popolazioni di questi paesi, una o più tra le parti belligeranti ha messo in atto strategie simili a quelle utilizzate dal governo etiope nel Tigrè. In queste settimane, oltretutto, sono emerse diverse testimonianze di come, durante il conflitto tra Hamas e Israele, esercito e civili israeliani stiano fisicamente impedendo l’accesso di beni di prima necessità e di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza.

Agent Orange

Facendo invece qualche passo indietro nella storia, durante la guerra del Vietnam l’esercito statunitense distrusse intenzionalmente terreni agricoli e risaie con bombe ed erbicidi (tra i quali il più utilizzato fu il tristemente celebre “Agent Orange”), così da tagliare ogni fonte di approvvigionamento per i nemici e sfoltire la fitta giungla dove si nascondevano. La devastazione fu così ampia che, oltre a causare la morte di centinaia di migliaia di persone, provocò gravissimi danni agli ecosistemi delle zone colpite, in quello che venne definito un vero e proprio “ecocidio”.

Anche la Germania nazista fece ampio utilizzo della fame come arma di guerra per sterminare le popolazioni ritenute etnicamente inferiori. Durante la Seconda Guerra Mondiale, i nazisti architettarono il cosiddetto Hungerplan, con l’obiettivo di affamare e decimare la popolazione sovietica. Il piano fu messo in atto durante l’invasione dell’Unione Sovietica nel 1941 e consistette nel provocare artificiosamente una carestia attraverso la confisca di beni alimentari. Si stima che tra il 1941 e la fine della guerra morirono come conseguenza dell’Hungerplan tra i quattro e i sette milioni di persone. Nei piani dei nazisti, il numero di vittime avrebbe dovuto superare i 30 milioni.

Vittima biodiversità

A soffrire l’impatto delle guerre sull’agricoltura non sono solo gli esseri umani, ma spesso è messa a rischio l’intera biodiversità di un territorio.

In particolare, quando sono prese di mira grandi porzioni di aree agricole, il rischio è quello che alcune specie vegetali tipiche della regione colpita vadano perse per sempre. Una delle strategie utilizzate da governi e organizzazioni per scongiurare questo rischio è quella di preservare le specie vegetali attraverso le banche dei semi, depositi dove conservare le sementi messe a rischio non solo dalle guerre, ma anche da disastri naturali, dal cambiamento climatico e da qualsiasi altro evento catastrofico.

Una delle banche dei semi più famose è la Svalbard Global Seed Vault, che dal 2008 oggi ha raccolto più di un milione di campioni di sementi provenienti da tutto il mondo, conservati sotto il permafrost delle remote isole norvegesi. Nel 2015, dopo soli sette anni dalla sua inaugurazione, la banca ha ricevuto la prima richiesta di ritiro di sementi: a causa della guerra in Siria, una ong libanese che aveva costruito una banca dei semi ad Aleppo si era vista costretta a dover trasferire e ricostruire la sua scorta a Beirut, in Libano, e necessitava dunque di campioni per la duplicazione.

In un’intervista all’emittente radiofonica statunitense Npr, l’allora portavoce dello Svalbard Global Seed Vault confessò che – nonostante appena fiutati i venti di guerra la banca norvegese si fosse affrettata a raccogliere i semi delle specie vegetali siriane – non si aspettava un ritiro così precoce.

© Riproduzione riservata