Drusilla Foer è stata la co-conduttrice della terza serata di Sanremo 2022. Pubblichiamo un estratto del romanzo “Tu non conosci la vergogna. La mia vita eleganzissima” edito da Mondadori

Ok, sono calma. Voglio immaginare che leggerete queste pagine su di lui con tutta la capacità di accoglienza che avete.

Comincerò dai fatti, poiché, quando è difficile scrivere di un sentimento, partire dai fatti è l’unica strada percorribile… Fine anni Novanta.

New York in inverno è detestabile, ma la grande capacità della cultura americana di imbellettare i suoi limiti durante il periodo natalizio accende la Grande Mela di una piacevolezza stucchevole, retorica, prevedibile che, in fondo, ho sempre perdonato.

Avevo appena chiuso il mio negozio di abiti usati nel Village. Quella bellissima esperienza meritava di essere interrotta prima che la richiesta di mazzette ne deteriorasse il valore. La mafia è una cosa brutta e violenta. In quella settimana ero visibilmente scossa, e i miei amici più cari si occuparono di me come di una bambina smarrita in un bosco.

Una sera

Una sera fui invitata a cena da Patrick e Ted, una coppia di amici, che avevano un bellissimo appartamento vicino al Lincoln Center, nella Upper West Side.

«Mad, vieni a cena da noi stasera, fatti bella, indosseremo tutti qualcosa che abbiamo acquistato da te.» Piuttosto che incontrare qualcuno, mi sarei buttata dal Rockefeller Center.

Maledii per un istante il dovermi “imbellettare”, ma quando Ted mi chiamava “Mad” sapevo che non potevo rifiutare.

Era un codice fra di noi. In molti mi chiamavano “Madame”, e questa cosa non mi piaceva un granché, ma l’abbreviazione “Mad” poteva andare, perché in inglese vuol dire “pazza”, e quella visione di me, allora, era più accettabile. E mi imponeva di accettare. Mad non poteva rifiutare un invito, un minacciosissimo cocktail, o tutto quello che in quegli anni a New York era possibile, e a volte doveroso, fare.

Che era spesso molto divertente, e ancor più spesso non del tutto sano, o non del tutto legale. «Fatti bella.» Mad si fece bella. Svogliatamente indossai un pigiama a palazzo di velluto color petrolio.

Una botta di rimmel, rossetto rosso. Minimo sforzo, massima resa e almeno il “fatti bella” era risolto. In taxi sperai che alla serata non ci fosse troppa gente, Mad non avrebbe resistito. Mad dovette subire anche quello. Tante persone, una foresta di persone, e una bambina smarrita nel mezzo.

C’erano tutti, tutti con qualcosa di mio addosso. L’atmosfera era gentile, nessuno schiamazzo, nessuna richiesta di forzata allegria, nessun eccesso di musica di sottofondo (detestabile usanza della Grande Mela).

In fondo ero con la mia famiglia di quegli anni newyorkesi, e il mio negozio di usato Secondhand Dru era la nostra casa. Speravo solo di non dover conoscere estranei, ma il dress code era “Wearing something Dru”.

Però Mad si sbagliava… a una certa ora uscì dall’ascensore che accedeva direttamente all’interno dell’appartamento un cappotto di Casentino arancione che mi ricordava qualcosa, e dentro il cappotto un signore che non mi ricordava nessuno..

L’incontro

La serata scivolò giusta e intima, ma poi giunse il momento che temevo. «Mad, ti presento Hervé Foer, è uno studioso belga.» Che palle… uno studioso e belga. Se mi avessero presentato un Pierrot bianco sarebbe stato più divertente, pensai… C’era da fare tutto daccapo.

Chi è, chi non è, studioso di che, come mai è a New York, Bruxelles è fredda, ecc. ecc… Mad, datti da fare: prima cominci, prima finisci. Mi bloccò subito lui. «Sono certo che non si ricorda di me.»

«Assolutamente vero» risposi seccamente.

«E non è improbabile che non abbia nessuna voglia di chiedermi chi sono, che cosa studio o perché sono qui, vero?»

Stupita, anzi colpita, risposi: «Vero». «Che Dio la benedica, io ho raramente voglia di parlare di me… Facciamo così, Maddalena, io sono qua stasera solo per farle una domanda e poi sparisco dalla circolazione.»

«Maddalena?» chiesi infastidita.

«“Mad” non è il diminutivo di Maddalena?»

Gli feci notare che aveva già usato l’unica domanda a sua disposizione. «Ha ragione. Adesso dovrò chiedere a qualcuno come si chiama… non ho più domande a disposizione» e rise.

Solo in quel momento mi accorsi che era bellissimo. Un bel sorriso triangolare con i denti bianchi, ma non perfettamente in linea, labbra belle, occhi vivi, buoni e maturi che con il sorriso si socchiudevano al punto di sembrare due fessure del salvadanaio, pelle attraversata da rughe, fitte e gentili. Mani belle. Capelli un po’ lunghi davanti, grigi, che nervosamente riportava all’ordine dietro l’orecchio, quando il fitto ciuffo gli andava sugli occhi.

«Mi chiamo Drusilla»

Un gesto di mio padre. Ero talmente presa da me che fino a quel momento non mi ero accorta della sua voce. Scura e calda, piacevole come una tazza di cioccolato caldo quando si ha voglia di cioccolato caldo.

«Mi chiamo Drusilla» dissi sommessamente per impedirgli di andarsene, cosa che stava facendo, e lui, tornando al suo posto, deciso, replicò. «Ok, Drusilla, le faccio la domanda. Che storia ha il cappotto di Casentino che ho acquistato nel suo negozio?»

Vuoto totale. Ricordavo che l’unico cappotto di Casentino proveniva da un’amica toscana a cui era morto l’anziano padre, del quale mi aveva venduto tutto il guardaroba… ma non ricordavo lui e nemmeno di averglielo venduto. Fu così che iniziammo a parlare. Mi raccontò che un giorno aveva visto quel cappotto nella piccola vetrina del negozio dove in genere mettevo un solo capo, molto convincente.

Quel giorno era entrato in negozio, mentre io poco prima ero uscita in fretta e avevo chiesto a Ted, che era venuto a trovarmi, il compito di ricevere i clienti. Ted non sapeva niente di quel capo europeo così eccentrico, ma lui ed Hervé parlarono a lungo e divennero amici.

Raccontai a Monsieur Cioccolata Calda che quel cappotto era stato fatto in Toscana, in lana ritorta molto calda, prodotta nella valle di Casentino, e che il taglio, un po’ signorile, era destinato ai fattori o ai proprietari terrieri che volevano essere visti da lontano. Ecco perché quell’arancione arrogante. Mi scusai con lui se ero stata sgradevole. Per farmi perdonare, gli proposi di farmi altre cinque domande. Accettò. E io accettai tutte le centinaia di domande che ci facemmo a vicenda quella sera.

Tornò a trovarmi in negozio spesso e iniziammo a frequentarci, molto naturalmente, con piacere, senza aspettative birichine, essendo io convinta che fosse omosessuale, sbagliandomi.

Per pigrizia non avevo ipotizzato che, anche se era divenuto amico del mio amico omosessuale, non era consequenziale che anche lui lo fosse… Maledetti luoghi comuni…

«Sono vedovo da quindici anni.» Chiarimmo l’equivoco dopo esserci frequentati per tre settimane. Ne sorridemmo anche.

«Bene, se non sei gay allora corteggiami» commentai sciolta e birichina.

Lui si bloccò, e al tempo stesso si illuminò da dentro. «Io ti sto corteggiando da tre settimane, piuttosto comincia anche tu a corteggiarmi.»

L’innamoramento

Mi innamorai in modo cauto e tranquillo. Quelle tre settimane non inquinate dal tentativo di seduzione gli permisero di affacciarsi a ciò che sono veramente, senza l’ansietà di piacere.

Ecco, sento in questo momento una commozione. Penso a quei mesi insieme a New York, alla chiusura del negozio, e a quando lo raggiunsi a Bruxelles per un “rodaggio affettivo”, come lui lo definì.

Passammo il “rodaggio” in sintonia, intensità, desiderio e lealtà. Non ho mai attribuito a nessuno dei miei sentimenti amorosi il dono dell’immortalità, e inizialmente non fui certa nemmeno che così fosse il mio amore per lui, pur sperando che fosse l’uomo della mia vita.

Tendo sempre a farlo, credendo di tutelarmi dalla delusione di un eventuale fallimento. Mi barrico dietro un muro malsano di fatalismo.

Ma quella volta avvenne un miracolo. Quel muro franò di botto. La sera in cui andammo a cena ci fu un attimo a tavola in cui io sentii un’esplosione inaspettata e libera. Non avevo mai sentito il rumore di quell’esplosione nella mia vita.

La sentii nascere dal basso fino a raggiungere il cuore e poi, con più calma, scaldarmi la mente. Io sentivo di appartenergli. L’emozione più densa di stupore e verità che abbia mai vissuto.

Lui percepì quell’esplosione: «Che cosa ti succede, amore mio, che cosa succede dentro di te, ora? Dimmelo.»

L’eruzione d’amore di quel vulcano assonnato da secoli era ancora in corso, e lui fu capace di attendere un po’, poi una gentile supplica. «Ti prego, raccontamelo e fidati, perché io sono tuo.» Ci sposammo, senza farci regali, io con il mio pigiama a palazzo, lui col suo Casentino.

Mi trasferii nella sua casa di Bruxelles, della quale ancora oggi conservo la targhetta del campanello che metto al collo nei momenti in cui supplico il suo aiuto. Furono pochi gli anni insieme, ma credo di aver avuto un privilegio che pochi hanno avuto: un amore leale. Libero di mostrarsi e darsi.

Hervé si ammalò, il male che aveva lo divorò velocemente. Quei giorni furono assurdamente bellissimi. Eravamo uno. Di più non so dire di quel tempo insieme.

So solo che Monsieur Foer è il mio uomo, il mio amore. Ciò che muove i miei pensieri, smorza i miei dolori, motiva i miei progetti, mi chiede ancora di essere bella per lui e leale come lo sono stata con lui.

«Sei il mio amore, Drusilla, e sei forte. Non piangere, io non muoio.

«Me ne vado come una farfalla.»

Sono forte, sì. Talmente forte che non riesco a dormire senza il tuo pigiama addosso. Amore mio.

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