«Chirurgo e fondatore di Emergency», si è spenta oggi a 73 anni la vita coerente di Gino Strada, il medico di guerra che ha dedicato i suoi sforzi a curare le persone nelle condizioni più difficili. Fare il medico «non è eroismo, è un grande senso di responsabilità» ha detto parlando del servizio dei medici durante il Covid-19. E dall’Afghanistan all’Italia, ci ha creduto in tutti gli anni della sua professione in cui ha sviluppato la sua presenza pubblica e politica nel senso civile del termine.

Strada ha spesso usato parole dure, Fino all’ultimo: «l’Italia è un Paese superficiale» aveva detto a dicembre ricordando le centinaia di morti per la pandemia: «Non credo che questo venga considerato con il giusto rispetto e la considerazione». 

Critiche anche all’Unione europea, perché accetta le morti dei migranti in mare: «Un atteggiamento conservatore ed egoista che esprime indifferenza alla vita umana e penso che sia terribile» aveva detto a Domani subito dopo la morte di 130 persone nel Mediterraneo lasciate annegare senza nessun aiuto.

Si è sempre schierato. Per i vaccini anti Covid-19 Emergency ha potato avanti la necessità di rendere liberi i brevetti e di garantire il vaccino gratuitamente a tutti: «Spezziamo la logica del profitto. Se vogliamo uscire dall’emergenza Covid-19, i vaccini devono arrivare a TUTTI».

La vita

Nato a Sesto San Giovanni, in provincia di Milano, il 21 aprile 1948, si legge sul sito della sua Ong, si è laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università Statale di Milano e si è specializzato in Chirurgia d’Urgenza. Per completare la formazione da medico-chirurgo, negli anni Ottanta è vissuto per 4 anni negli Stati Uniti, dove si è occupato di chirurgia dei trapianti di cuore e cuore-polmone. Poi in Inghilterra e in Sud Africa, dove svolge periodi di formazione presso l’ospedale di Harefield e presso il Groote Schuur Hospital di Città del Capo.

Nel 1988 ha deciso di applicare la sua esperienza in chirurgia di urgenza all’assistenza dei feriti di guerra. Il suo impegno è stato quello per sempre: fino al 1994, ha lavorato con la Croce Rossa Internazionale di Ginevra in Pakistan, Etiopia, Tailandia, Afghanistan, Perù, Gibuti, Somalia, Bosnia. Poi la fondazione di Emergency con la moglie, Teresa Sarti Strada, scomparsa nel 2009.

Il  primo progetto è stato in Ruanda, dove è stato ristrutturato e riaperto il reparto di chirurgia dell’ospedale di Kigali e riattivato il reparto di ostetricia e ginecologia. A dieci anni aveva ribadito: «Dieci anni dopo siamo soddisfatti di tutta la strada che abbiamo fatto per curare malati che non avrebbero avuto altra possibilità di essere curati e per affermare un’idea: che il diritto alla cura è un diritto che spetta a ogni essere umano».

La collaborazione con la figlia Cecilia

Negli anni, Strada è stato accompagnato nella sua attività anche dalla figlia, Cecilia, che ha ricoperto il ruolo di presidente dal 2009 fino al luglio del 2017. Sul caso l’Espresso ricostruisce un conflitto interno e Strada si infuria. «Che tu possa finalmente vedere gli ospedali di guerra svuotarsi di feriti e riempirsi di rose» l’augurio rivolto direttamente ad Emergency da Cecilia Strada quando si allontana definitivamente dalla Ong.

Dopo la notizia della morte ha pubblicato un post dal Mediterraneo in cui ha scritto: «Non ero con lui, ma di tutti i posti dove avrei potuto essere… beh, ero qui con la ResQ - People saving people a salvare vite. È quello che mi hanno insegnato mio padre e mia madre. Vi abbraccio tutti, forte, vi sono vicina, e ci sentiamo quando possiamo».

L’ultimo articolo

Nell’anno del Covid-19 la politica ha tirato in ballo la sua figura, ipotizzando un suo ruolo come commissario Covid in Calabria. Ma Strada si è limitato ha rispondere alle richieste di aiuto, avviando un reparto Covid a Crotone. Ha continuato ad aprire ospedali in Africa e a intervenire ogni volta che il dibattito pubblico si è agitato sui temi a lui cari: la sanità («Oggi si chiama ministero della Salute, non so se sia un augurio» ironizzò in una delle sue ultime interviste televisive») e adesso l’inasprimento delle lotte intestine in Afghanistan, che hanno direttamente coinvolto gli ospedali di Emergency.

Per il paese il suo ultimo articolo sulla Stampa uscito questa mattina: «Ho vissuto in Afghanistan complessivamente 7 anni: ho visto aumentare il numero dei feriti e la violenza, mentre il Paese veniva progressivamente divorato dall’insicurezza e dalla corruzione» e l’ennesimo appello: «Ci sono delle persone che in quel Paese distrutto cercano ancora di tutelare i diritti essenziali. Ad esempio, gli ospedali e lo staff di Emergency - pieni di feriti - continuano a lavorare in mezzo ai combattimenti, correndo anche dei rischi per la propria incolumità: non posso scrivere di Afghanistan senza pensare prima di tutto a loro e agli afghani che stanno soffrendo in questo momento, veri “eroi di guerra”».

Il Vignettista Vauro, suo amico ha ricordato l’impegno comune: «Addio caro Gino».

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