Dal 19 gennaio i cittadini dell’Emilia Romagna possono utilizzare un test antigenico autosomministrato sia per certificare l’infezione con il Sars-CoV-2 e iniziare l’isolamento domiciliare sia per terminarlo dopo sette giorni se ottengono un risultato negativo. Tuttavia, questa opportunità è accessibile solo per coloro che sono in possesso del Fascicolo sanitario elettronico e hanno ricevuto tre dosi di vaccino.

Nel Regno Unito dalla scorsa settimana il test antigenico fatto a casa è sufficiente a certificare l’infezione, per tutti i cittadini britannici, nessuno escluso. Non sarà cioè più necessario confermare i risultati positivi ottenuti a casa con un test molecolare. L’unica differenza è che per uscire dall’isolamento è necessario ottenere due risultati negativi consecutivi a distanza di 24 ore l’uno dall’altro.

Le decisione della regione Emilia Romagna e del Regno Unito sono entrambe giustificate dall’alta prevalenza dell’infezione in questo periodo: circa il sette per cento dei cittadini inglesi, e probabilmente anche italiani, sono attualmente infetti.

Questo rende sufficientemente affidabili i risultati positivi ottenuti dai test antigenici autosomministrati. Infatti, anche se le caratteristiche intrinseche dei test, cioè la loro sensibilità e specificità, restano le stesse indipendentemente dalla diffusione del contagio, l’affidabilità dei risultati cambia.

Il teorema di Bayes

Per capire perché questo accada è necessario ragionare in termini probabilistici e sfruttare il teorema di Bayes, che mette in relazione la probabilità di essere infetti o non infetti una volta ricevuto il risultato del test con la sensibilità del test, la sua specificità e anche la probabilità di essere infetti prima di sottoporsi al test.

La sensibilità di un test è la probabilità che risulti positivo su un campione prelevato da una persona infetta, mentre la specificità è la probabilità che risulti negativo su un campione prelevato da una persona non infetta.

I valori di sensibilità e specificità dichiarati dai produttori sono ottenuti in laboratorio in condizioni ideali. Quando messi alla prova sul campo, le cose di solito cambiano un po’. Dipendono, per esempio, dalla qualità del campione prelevato, dalla fase dell’infezione in cui viene effettuato il test.

Nel 2021, uno studio inglese ha analizzato i risultati ottenuti su campioni prelevati tramite tampone nasofaringeo da personale inesperto concludendo che la sensibilità del test antigenico rapido considerato fosse circa il 45 per cento. Uno studio finlandese ha invece stimato che la sensibilità sul campo di un test molecolare è dell’89,9 per cento circa. Entrambi gli studi hanno trovato un’alta specificità, circa il 99,9 per cento.

Immaginiamo ora una persona asintomatica che non ha avuto contatti stretti con persone infette e si sottopone a un test antigenico rapido e a uno molecolare con questi valori di sensibilità e specificità. È ragionevole assumere che la sua probabilità di essere infetta prima del test sia circa uguale alla prevalenza dell’infezione nella popolazione, oggi il sette per cento.

In questo caso il teorema Bayes ci dice che la probabilità di essere infetti se il risultato è positivo è del 97,1 per cento per un test antigenico e del 98,5 per cento per un test molecolare.

Se la probabilità iniziale fosse più bassa, diciamo l’un per cento, le probabilità di essere infetti avendo ottenuto risultato positivo, sarebbero ben diverse per un test antigenico e uno molecolare: 82 per cento e 90,1 per cento, rispettivamente. In questo senso un risultato positivo da un test antigenico ottenuto ora è più affidabile di quanto non sarebbe accaduto mesi fa, quando la circolazione del virus era meno intensa.

È importante sottolineare che con test antigenici rapidi qui ci riferiamo ai cosiddetti test antigenici di “prima generazione”, basati sulla tecnica dell’immunocromatografia.

Nell’ultimo anno sono stati messi a punto e commercializzati test antigenici più sofisticati, come quelli con lettura in immunofluorescenza, che sono eseguiti in farmacia o nei laboratori. Questi test hanno una sensibilità molto più elevata di quelli di “prima generazione” e confrontabile con quella dei test molecolari.

La carica virale

Valutiamo ora l’affidabilità di un risultato negativo. Con una prevalenza dell’infezione dell’un per cento, la probabilità di un falso negativo sarebbe dello 0,1 per cento per un test molecolare e dello 0,55 per cento per un test antigenico rapido.

Se dal punto di vista individuale queste due percentuali ci sembrano simili, quando la valutiamo su una popolazione la conclusione è meno evidente. Se testassimo 10mila soggetti asintomatici tra cui ci sono cento infetti, 55 di questi riceverebbero un risultato negativo dal test antigenico e solo dieci dal test molecolare.

Questo è l’argomento che ha spinto molti esperti in Italia a pronunciarsi contro l’uso diffuso dei test rapidi autosomministrati che sono stati di fatto esclusi dagli strumenti adottati dalle istituzione per contenere il contagio.

Tuttavia, già alla fine del 2020, si è cominciata ad accumulare evidenza che i test antigenici rapidi siano sì meno capaci di rilevare la presenza del virus rispetto ai test molecolari quando la carica virale è bassa, ma che la loro sensibilità aumenti in modo sostanziale nei soggetti con carica virale sufficientemente elevata da essere contagiosi.

Lo studio inglese del 2021 ha infatti stimato che per soggetti con carica virale sopra la soglia media di contagiosità, la sensibilità del test antigenico rapido, anche considerando prelievi effettuati da personale inesperto, sale dal 45 per cento all’85 per cento. Questo vuol dire che se ripetiamo l’esperimento di prima, su una popolazione di diecimila persone di cui cento sono infette e contagiose, solo 15 riceveranno un risultato falso negativo dal test.

Per questo motivo i test antigenici rapidi sono particolarmente adatti come strumento di controllo del contagio, soprattutto nella popolazione degli asintomatici che giocano un ruolo importante nella trasmissione dell’infezione. Rispetto ai test molecolari, i test antigenici hanno l’enorme vantaggio di restituire i risultati in tempo praticamente reale permettendo il pronto isolamento dei contagiosi.

I test molecolari richiedono invece laboratori dedicati, personale specializzato e diverse ore di elaborazione. Quando la richiesta aumenta a dismisura, come è accaduto con l’arrivo di Omicron, i risultati possono impiegare giorni ad arrivare. Un’analisi pubblicata a gennaio del 2021 sulla rivista Science suggeriva che la velocità di risposta del test e la frequenza con cui viene somministrato siano parametri più importanti della sensibilità ai fini di ridurre l’incidenza del contagio.

Il caso inglese

Il Regno Unito ha deciso di investire molto nei test antigenici da fare a casa, che sono diventati una colonna portante del programma di Test and trace del national health service (Nhs). Dalla primavera del 2021, ogni famiglia riceve gratis per posta ogni settimana una confezione contenente sette test rapidi da fare a casa, oppure può ritirarla in farmacia.

Prima di estendere questa strategia a tutto il paese, l’Nhs ne ha valutato l’efficacia in un studio pilota condotto a Liverpool tra novembre 2020 e aprile 2021, che ha mostrato che la disponibilità di test antigenici rapidi per tutti i cittadini ha permesso di ridurre del 32 per cento il numero di infezioni, grazie all’identificazione di circa 6mila casi tra gli asintomatici.

Lo studio ha anche suggerito che le disuguaglianze sociali ed economiche riducono il successo di questa strategia. I cittadini residenti nelle zone più svantaggiate avevano un minor accesso ai test, una minore propensione a sottoporvisi e a comunicare i risultati positivi, probabilmente a causa dei timori di perdere giorni di lavoro e incidere negativamente sul reddito familiare.

Diversi esperti italiani hanno portato anche questo argomento contro l’uso diffuso dei test autosomministrati, oltre alla difficoltà dell’autoprelievo di un tampone nasofaringeo e al rischio di guadagnare un senso di “falsa sicurezza” che spinga ad abbandonare tutte le altre cautele.

Il presidente dell’associazione dei microbiologi clinici italiani Pierangelo Clerici, intervistato da Radio3 Scienza, ha detto che teme che sul fai-da-te si pecchi «di esuberanza». È chiaro che nessuna misura di contenimento del contagio funziona da sola, c’è bisogno di tutele sul lavoro ma anche di una comunicazione efficace che spieghi che un risultato negativo non è un lasciapassare sociale.

Tuttavia, questo atteggiamento degli esperti rivela un paternalismo nei confronti dei cittadini da parte delle istituzioni che non contribuisce a creare quell’alleanza necessaria a contrastare un’epidemia di questa portata e durata nel tempo.

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