Sino alla seconda metà del 1943 gli ebrei italiani, pur colpiti dal 1938 dalle leggi fasciste antisemite, erano stati risparmiati dalle deportazioni verso i Lager tedeschi e i centri di sterminio. Ma il rapido susseguirsi degli avvenimenti verificatisi tra il luglio e il settembre di quell’anno aveva mutato radicalmente la prospettiva, offrendo alla Germania nazista le condizioni per rendere anche la penisola judenrein (sgombra da ebrei ndr)
Nella seconda metà del 1943, la Shoah scese in Italia con l’arrivo degli uomini di Adolf Eichmann, l’architetto dello sterminio, e segnò il destino di 7.579 persone. Sino ad allora gli ebrei che risiedevano nel nostro paese, pur colpiti dal 1938 dalle leggi fasciste antisemite, erano stati risparmiati dalle deportazioni verso i Lager tedeschi e i centri di sterminio.
Ma il rapido susseguirsi degli avvenimenti verificatisi tra il luglio e il settembre di quell’anno aveva mutato radicalmente la prospettiva, offrendo alla Germania nazista le condizioni per rendere anche la penisola judenrein (sgombra da ebrei ndr). L’ultimo anno, in particolare, era stato segnato da un aumento vertiginoso del parossismo omicida su scala europea. Se nel marzo del 1942 circa il 75-80 per cento di quelle che sarebbero state le vittime totali della Shoah era ancora vivo, a metà febbraio 1943 ne era morto circa l’80 per cento.
L’occupazione militare tedesca dell’Italia, seguita all’armistizio dell’8 settembre, e l’istaurazione di un governo fantoccio nella parte centro-settentrionale della penisola guidato dal redivivo Mussolini avevano messo in movimento l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA), al cui interno operava il think tank che, da Berlino, pianificava la logistica della «soluzione finale».
Il capitano Dannecker
L’iniziale convinzione che le forze di polizia presenti in Italia non fossero sufficienti e sufficientemente preparate per la conduzione delle «necessarie azioni ebraiche» e il quadro militare e politico non ancora definito spinsero l’RSHA a forzare i tempi.
Verso la metà di settembre il capitano delle SS Theodor Dannecker, alla testa di un piccolo distaccamento di una decina di uomini, ricevette l’ordine di avviare nelle principali città italiane la cattura e la deportazione degli ebrei.
Appena trentenne, Dannecker poteva vantare una solida esperienza in materia, maturata a partire dalla metà degli anni Trenta nell’ufficio IV B4 del RSHA e, poi, sul campo in Francia e in Bulgaria, dove nel suo ruolo di consigliere per le questioni ebraiche aveva guidato le operazioni di arresto e deportazioni degli ebrei dei rispettivi paesi.
Il commando mobile ai suoi ordini risalì la penisola da Roma – dove si era inizialmente recato e dove, ottenuto non senza qualche forzatura l’appoggio delle unità della polizia tedesca, aveva condotto un primo, grande rastrellamento, cui era seguito nell’arco di poche ore la partenza con destinazione il campo di Auschwitz di 1.023 ebrei. Tra gli inizi di novembre e il mese di dicembre analoghe operazioni erano state effettuate a Genova, Montecatini, Siena, Firenze, Bologna, Milano.
Nei primi giorni di dicembre il gruppo era giunto a Verona. Nel frattempo, il Partito fascista repubblicano, tracciando le linee programmatiche del nuovo regime, offriva di fatto un solido appoggio alla svolta impressa alla “questione ebraica” nelle settimane precedenti.
A metà ottobre, a conclusione del congresso di Verona, aveva dichiarato gli ebrei «stranieri» e, in tempo di guerra, «appartenenti a nazionalità nemica», introducendo lo spirito delle leggi di Norimberga sul territorio della RSI. Il 30 novembre, il ministro dell’Interno Buffarini Guidi trasmetteva ai capi delle province (prefetti) l’ordine di arresto degli elementi considerati di razza ebraica, anche se discriminati, del loro internamento in appositi campi provinciali «in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati», e di confisca dei loro beni. Tali decisioni convinsero l’alleato tedesco che le condizioni erano mature per un cambio di strategia nella caccia agli ebrei della penisola. Il nuovo corso preso dalla politica antisemita della Repubblica di Salò rendeva vulnerabile come mai la popolazione ebraica in Italia.
Il «reinsediamento» ebraico
La soluzione venne individuata, riprendendo quanto già sperimentato in Francia, nell’attivazione di un ufficio per le questioni ebraiche, che sarebbe stato integrato nella filiale italiana del RSHA, insediata a Verona nell’elegante palazzo sede dell’INA, affacciato su Corso Vittorio Emanuele II, a poche centinaia di metri dall’Arena romana.
Alle forze di polizia italiane sarebbe spettato di identificare e fermare tutti gli ebrei, per concentrarli poi nelle apposite strutture, agli specialisti del RSHA di organizzare i trasporti, per quello che il gergo nazista definiva il «reinsediamento» ebraico. Il prezzo di una tale collaborazione implicava la perdita del controllo da parte delle autorità italiane degli arrestati e la subordinazione alla giurisdizione tedesca.
Con l’inizio del febbraio 1944, uscito di scena Dannecker, destinato ad altri incarichi, il ruolo principale del coordinamento della persecuzione ebraica fu assunto dal maggiore delle SS Friedrich Boßhammer.
Nato in Renania nel 1906, per classe anagrafica, scelte di vita e percorso professionale apparteneva a quella che è stata definita la Kriegsjugendgeneration (generazione della gioventù di guerra ndr), da cui proveniva una parte significativa della classe dirigente nazionalsocialista che, una volta raggiunti ruoli di responsabilità, aveva saputo interpretare dinamicamente la politica di annientamento dell’ebraismo europeo al fine di conseguire i propri obiettivi rapidamente, senza compromessi e incondizionatamente. Formatosi anch’egli nell’ufficio berlinese di Eichmann, l’ufficiale trentottenne ne poteva mettere ora in pratica l’insegnamento.
Il maggiore Boßhammer
Pur disponendo di forze limitate, l’ufficiale delle SS risolse efficacemente l’incarico che gli era stato affidato, utilizzando le competenze e le forze di polizia tedesche e italiane. Dando corso al cambio di strategia decisa nei mesi precedenti a Berlino, Boßhammer operò perché gli ebrei fermati e arrestati dalle forze italiane e tedesche fossero trasferiti con regolarità nel campo nazionale di Fossoli che, sottratto alla metà del marzo 1944 al controllo della prefettura di Modena, divenne Campo di transito tedesco, punto di avvio della deportazione ad Auschwitz. Dal febbraio all’agosto 1944, sotto la sua direzione furono formati undici trasporti, sui quali 2.710 ebrei ed ebree furono inviati in Europa orientale.
Nel settembre 1944, a Boßhammer venne conferita la Croce al merito di II classe con spade − la più alta onorificenza della Germania nazista assegnata ai non combattenti – con la seguente motivazione: «Responsabile della lotta contro gli ebrei sul suolo italiano dal febbraio 1944, ha dato un contributo notevole alla soluzione finale della questione ebraica e si è distinto personalmente in numerose campagne antiebraiche».
Fuggito in Austria con falsi documenti negli ultimi giorni di guerra, era riuscito a cancellare le tracce del passato, nonostante fosse stato incarcerato e indagato in un paio di occasioni tra il 1945 e il 1948. Stabilitosi a Wuppertal, nell’agosto 1952, poté, finalmente, rientrare nella vite civile. Si sposò per la seconda volta, si iscrisse nell’albo degli avvocati e iniziò a esercitare la professione forense.
Fu la scoperta del documento in cui si proponeva di decorarlo, un ventennio più tardi, che riportò il suo operato alla ribalta. Le parole di elogio di un tempo, ora lo strappavano dall’oblio nel quale si era nascosto. Sulla base del mandato emesso dal tribunale distrettuale di Tiergarten (Berlino), il 10 gennaio 1968 l’inviato di Eichmann in Italia veniva finalmente arrestato.
Carlo Saletti, storico. Il testo è una sintesi del contributo per il catalogo della mostra Fascismo, Resistenza, Libertà. Verona 1943-1945, a cura di Andrea Martini, Federico Melotto, Marta Nezzo e Francesca Rossi, allestita nel museo di Castelvecchio (Verona) dal 14 marzo al 27 luglio 2025.
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