Neanche 24 ore dopo la sentenza che ha ha assolto tutti gli imputati per la presunta corruzione nigeriana relativa al campo petrolifero Opl 245, Eni stringe la mano alla procura di Milano e accetta di pagare in totale 11,8 milioni di euro per chiudere la partita congolese. Un'inchiesta che si può definire gemella rispetto a quella nigeriana, perché nasce dall'assunto che la multinazionale italiana abbia pagato il governo del Congo - Brazzaville (ex colonia francese, distinta dal Congo cosiddetto belga) per accaparrarsi diritti di sfruttamento, ben lieto di stringere un patto criminale col Cane a sei zampe.

Il processo nigeriano - tre anni di braccio di ferro in aula tra truppa di avvocati Eni e i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro – ha vissuto momenti di alta tensione che sembrano essere svaniti davanti al tavolo di Paolo Storari, il pubblico ministero contitolare dell'inchiesta Congo che ha portato l'azienda italiana al patteggiamento a fronte della ridefinizione dell’ipotesi di reato da “corruzione” a “induzione indebita”.

Appuntamento fissato

L'appuntamento è per il 25 marzo davanti al gip Sofia Fioretta che sarà chiamata a ratificare l'accordo e portare fuori da questo procedimento la società. Il patteggiamento, com’è noto, non è un’ammissione di responsabilità ma nei fatti segnala la presa di coscienza che via sia qualcosa di poco chiaro nel proprio comportamento. 

Tutto nasce dalla manovre di Eni per ottenere, nel 2013, il rinnovo delle licenze estrattive nei pozzi congolesi Marine VI e VII, il cui valore sarebbe stato stimato in 400 milioni di dollari, che sarebbero state riassegnate alla società italiana grazie alla retrocessione di parte delle quote di di proprietà dei pozzi alla Aocg, una società locale.

A sua volta, Aogc avrebbe poi ceduto il 23 per cento di un altro giacimento, Marine XI (valore: 23 milioni), a un’impresa sconosciuta: la World Natural Resources dietro la quale ci sarebbero due indagati di questa inchiesta, ovvero l'ex dirigente Eni Roberto Casula, molto vicino a Claudio Descalzi quando quest'ultimo era a capo delle attività estrattive mondiali della società (poi sarebbe diventato amministratore delegato), e Maria Paduano, ritenuta la prestanome del primo.

Tutto questo schema, ritenuto corruttivo dalla procura di Milano, avrebbe avuto il fine di far arrivare risorse e utilità a pubblici ufficiali e “consiglieri” del presidente Denis Sassou Nguesso. Ovvero il regista ultimo dell'operazione.

Il problema congolese era stato oggetto anche di grandi discussioni nel cda di Eni tra Descalzi e Luigi Zingales, l'economista che si era dimesso proprio nel 2015 in forte disaccordo con la posizione del consiglio.

L’inchiesta

Da questi fatti nasce nel 2015 un’inchiesta della procura di Milano che ha portato pochi mesi fa il pm Storari a chiedere al gip di Milano una misura interdittiva di due anni sullo sfruttamento di questi pozzi.

Una misura che deve aver messo in allarme la società, forse più per motivi di immagine che non di effettiva applicabilità nel paese africano, ma tanto è bastato per far propendere verso una soluzione «negoziale» qual è un patteggiamento ai sensi della legge 231 del 2001, che regola la responsabilità amministrativa delle imprese per i reati che potrebbero commettere i suoi dipendenti.

Ma nelle contrattazioni tutte e due le parti devono fare un passo in avanti verso la conciliazione, e il pm ha accettato di rivedere l'ipotesi di reato da «corruzione internazionale» a «induzione indebita», in altri termini la concussione post modifica della legge Severino del 2012, che prende il nome dell'ex ministro della Giustizia, professoressa e avvocata che oggi difende anche Descalzi.

In questo caso l'azienda italiana sarebbe stata indotta, costretta con le buone, dai congolesi a aderire a questo schema pena dover salutare i giacimenti di petrolio. Le pene sono più lievi, rispetto alla corruzione, per la società e i suoi dipendenti soggiogati. Per Eni, dopo l'assoluzione nel caso nigeriano, sparirebbe anche qui la parola «corruzione». Un altro passo verso una nuova verginità della società sui ricci mercati di approvvigionamento africani.

Da questo patteggiamento restano fuori le posizioni degli indagati persone fisiche: oltre a Casula e Patuano vi sono Alexander Haly, uomo d'affari russo ritenuto vicino alla famiglia Descalzi, Ernest Olufemi Akinmade, ex dirigente di Agip in Nigeria, e Andrea Pulcini, un altro ex dirigente del gruppo. Per quel che se ne sa Casula, uscito a gennaio da Eni e assolto dal caso nigeriano, potrebbe voler patteggiare anche lui una pena per induzione indebita. È probabile che anche altri decidano a questo punti di volersi accodare. 

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