Donna, nera, nomade. Nel mondo dell’alta cucina, dominata da uomini bianchi, dove fortissima è la centralità dei grandi chef stellati e l’influenza della tradizione culinaria europea, Fatmata Binta rappresenta una radicale diversità. «Durante il mio viaggio in Italia sono stata invitata ad un festival in Puglia insieme a chef provenienti da tutto il mondo. Eravamo in 12 e molti erano chef stellati Michelin. Ebbene, su 12 partecipanti io ero l’unica donna, ed ero l’unica persona di colore», racconta Fatmata Binta, chef della Sierra Leone, vincitrice dell’ultima edizione del Basque Culinary World Prize 2022, prestigioso premio che riconosce le potenzialità della cucina come motore di cambiamento sociale.

Quella di Famata Binta, infatti, non è solo (ottima) cucina: è una battaglia culturale, che mette al centro la decolonizzazione, la sostenibilità ambientale, la disuguaglianza di genere e una critica alle distorsioni dell’industria alimentare globale. 

Decolonizzazione in cucina

Domani ha incontrato chef Binta a novembre al Museo delle Civiltà di Roma, mentre partecipava all’evento Riformulare le tradizioni. Innovazione Culinaria come Patrimonio Culturale Immateriale, a cura di Johanne Affricot e Eric Otieno Sumba. Qui la chef africana ha presentato alcuni dei suoi piatti e ne ha raccontato la storia.

La sua cucina prende spunto dalla tradizione culinaria del popolo nomade Fulani, tramandata oralmente dalle donne della comunità. «Noi africani dobbiamo essere orgogliosi di quello che abbiamo», afferma Chef Binta. «Decolonizzazione significa che dobbiamo essere noi africani il motore della valorizzazione della nostra culture, senza attendere che lo facciano altri. E questo non vale solo per la cucina, ma anche per la musica, la moda, e in generale i nostri valori. La cultura non è qualcosa di statico. Io mi impegno molto, nel mio lavoro, a interrogarmi sugli aspetti della nostra cultura che sono importanti per il progresso, sostenibili, mi impegno a identificarli e creare lo spazio necessario perché possano evolversi».

Al tempo stesso, la cucina di chef Binta è rivolta all’innovazione e alla commistione di sapori provenienti da zone geografiche diverse, come si può apprezzare da alcune delle ricette presentate a Roma, quali il pudding di fagioli in foglie di banano, il gelato al baobab e le polpettine di pesce al lime. Per Binta gli odori principali della cucina italiana quali il basilico, il prezzemolo, il limone e la cipolla ricordano i profumi della cucina del suo villaggio, che non ha mai smesso di usare nei suoi piatti.

Cucina nomade

Fatmata Binta nasce e cresce a Freetown, in Sierra Leone, da una famiglia Fulani originaria della Guinea. «Vengo da una grande famiglia e nonostante sia nata in città posso affermare di essere cresciuta all’interno della mia comunità di provenienza. Ho appreso sin da piccola le tradizioni Fulani, il senso della famiglia e l’importanza della condivisione del pasto come momento di vita sociale. Noi Fulani abbiamo uno spirito nomade e siamo minimalisti dal punto di vista dei bisogni materiali, attenti all’impatto del nostro passaggio. Io porto avanti questi valori nella mia vita e nella cucina e il concetto di fondo del dine on a mat (cena su un tappeto, ndr) è quello di un luogo di condivisione ed esperienza culinaria sostenibile».

Come i suoi antenati che per secoli si sono spostati in zone diverse dell’Africa, chef Binta sin da giovane ha fatto dell’esperienza del viaggio un ingrediente fondamentale di ispirazione per la creazione dei suoi piatti. Dopo gli studi in relazioni internazionali e un soggiorno in Spagna, Fatmata ha affinato le sue abilità culinarie presso l’Istituto di alta cucina di Nairobi, Kenya, dove ha avuto modo di apprendere le basi della cucina dell’Africa orientale. Sin dal principio della sua carriera la sua cucina è dunque sincretica, unisce Africa dell’ovest con l’Africa dell’est e guarda sempre al cambiamento.

Un antico cereale contro l’insicurezza alimentare

 L’attenzione alle questioni sociali e ambientali ha portato Fatmata Binta a fondare la Fulani kitchen foundation, che promuove l’uso di un cereale in occidente quasi del tutto sconosciuto, eppure antichissimo. Il fonio, cereale dalle alte proprietà nutritive e privo di glutine. Coltivato da 5mila anni, ha bisogno di pochissima acqua e cresce spontaneamente in zone aride; storicamente è stato usato dalle popolazioni nomadi grazie al suo sviluppo estremamente rapido, che richiede circa sei-otto settimane dalla semina alla raccolta. Da secoli la trebbiatura e la preparazione del seme sono affidate alle donne ed è a loro che il progetto Fulani kitchen si rivolge, in particolare attraverso la collaborazione con associazioni di contadine nel Nord del Ghana.

Il fonio è dunque un cereale sostenibile, che non impoverisce il terreno, una risorsa da riscoprire dinanzi al problema globale della sicurezza alimentare determinato anche dall’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità (secondo il Fondo Monetario Internazionale nell’Africa subsahariana, nel biennio 2020 – 2022, il prezzo degli alimenti fondamentali è aumentato del 23,9 per cento. Tra le cause di questo aumento spiccano i disastri ambientali, il cambiamento climatico e la dipendenza di questi paesi dalle importazioni di grano dall’occidente.

Secondo il progetto lanciato da chef Binta, investire in ricerca e sviluppo su coltivazioni locali è quindi un fattore chiave nella lotta contro l’insicurezza alimentare. Questo tipo di investimenti, attraverso la creazione di posti di lavoro, possono avere degli effetti positivi anche sull’inclusione sociale tramite riconoscimento del ruolo delle donne nella coltivazione e produzione alimentare.

Una donna nera a un tavolo di uomini (bianchi)

Il premio ricevuto da chef Binta ammonta a 100mila euro che saranno integralmente investiti sul progetto Fulani kitchen. Ma il punto non sono i soldi: «Il premio principale per me è la visibilità, questo palcoscenico ha amplificato la mia voce. Da quando ho vinto il premio ho avuto molte conversazioni rilevanti e mi sono seduta a tavoli importanti. Sento che il mondo sta ascoltando ciò che ho da dire, ed è importante ora utilizzare questo palcoscenico per far luce sulle cose a cui tengo. Si tratta di questioni importanti per me e per la mia comunità, come il fonio, il lavoro e l’emancipazione delle donne. Non vedo l’ora di rimettermi al lavoro sui miei progetti. Attualmente sono a Roma e poi andrò a Bogotà e poi tornerò ai miei progetti nella comunità».

Il settore dell’alta cucina è globalmente dominato dagli uomini. Come è stato più volte segnalato da questo giornale le discriminazioni strutturali che le donne subiscono, ed in particolare quelle non bianche, sono accentuate dalla scarsa presenza di donne in posizioni decisionali, dalle riviste specializzate alle giurie dei premi, finanche alla scrittura delle guide.

«Come donna di colore devi lavorare dieci volte più duramente per mostrare il tuo valore. Devi essere forte, devi proteggere il tuo spazio perché cercano sempre di metterti a tacere, di respingerti. Questa è la realtà del settore. Ho imparato che devi continuare a provare per dimostrare loro che non possono ignorarti perché tu sei lì per restare».

Per una cucina consapevole

Per chi lavora nel mondo della cucina l’Italia resta un punto di riferimento, proprio per la profondità delle sue tradizioni culinarie popolari. «Amo la cucina italiana, mangerei il gelato ogni giorno. Gli italiani apprezzano la famiglia, il cibo, la convivialità... proprio come i Fulani. Non c’è molto che possa insegnarvi», ride chef Binta. «L’unico messaggio che vorrei darvi è questo: dobbiamo concentrarci tutti sui problemi che stanno affliggendo noi e il nostro pianeta. Il mondo è in fiamme, c’è il riscaldamento globale, c’è la fame, ci sono guerre. Dobbiamo essere più consapevoli e responsabili, tutti, non solo gli italiani, al di là dell’etnie e delle nazionalità».

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