La querelle tra Francesco Totti e l’allenatore Luciano Spalletti si è trascinata fino all’addio del capitano con quel foglietto, umido di lacrime, che il giocatore simbolo della Roma ha usato nel 2017 per leggere un testo rivolto con rancore non a colui che gli rendeva impossibile la vita da calciatore ma al «tempo, il maledetto tempo». Totti aveva 41 anni e, pure a detta del mister col quale era arrivato ai ferri corti, «da fermo tira ancora delle “lasagne”, tutte all’incrocio dei pali». Solo che non riusciva più a correre come e quanto pretende la copertura degli spazi del calcio del Duemila.

Il fine carriera di uno degli atleti più rappresentativi e dotati della storia dello sport italiano è anche il paradigma dell’inabilità, piuttosto diffusa tra i fuoriclasse, a fare lo slalom tra i paletti della natura mortale dell’uomo. Saper dire basta al momento giusto, coltivare l’arte del distacco e la consapevolezza dello stare sugli alberi come le foglie è un talento come lo è dare del tu alla palla.

Talento è mostrare il coraggio di smettere col vento in poppa: Flavia Pennetta ha dato l’addio alla racchetta mentre riceveva la coppa di campionessa degli Us Open 2015. Il suo primo e unico titolo dello Slam. «Penso sia il momento giusto per salutare» ha affermato radiosa, di fronte a migliaia di fan tra lo stralunato e lo sbigottito. Non si è mai voltata indietro. La sua avversaria in finale, Roberta Vinci, è andata in pensione pochi mesi più tardi e ancora oggi, da telecronista per Eurosport, le tocca commentare ragazze che hanno passato i trenta, i trentacinque. Eppure, risultati o meno, a fermarsi non ci pensano neanche. Alcune, confida, perseverano perché hanno molta meno paura di lottare in un match che non di vedersela con le insidie della vita normale: la casa, le bollette, la spesa - in altre parole, trovarsi un posto al mondo.

L’addio di Federer

Certo: se è difficilissimo arrivare lassù, dove solo i campioni osano respirare senza bombole d’ossigeno, quando e come fare marcia indietro dev’essere ancora più complicato e foriero di dolori assortiti. Roger Federer ha covato per settimane il messaggio di addio al suo popolo adorante di fan e l’ultima danza, alla recente Laver Cup di Londra, non si è risolta in una festa – come sperato e annunciato da lui medesimo – ma in una specie di novena.

Dopo aver perso l’ultimo doppio al fianco del sempre meno rivale e sempre più amico Rafa Nadal, Federer si è visto spettatore della fine del proprio film e ne è scaturito un crollo emotivo bello e buono. Non per la voce suadente di Ellie Goulding che si esibiva mentre lui, abbandonato sulla panchina come un bambino lasciato solo al parco, cercava e trovava la mano di Nadal, in un gesto che diventerà icona al pari dello slam dunk di Michael Jordan durante l’All Star Game e del passaggio di borraccia tra Coppi e Bartali.

No: Roger era genuinamente disperato. Mentre sussurrava ai figli, accorsi ad abbracciarlo, di non piangere «perché papà è felice, non è triste» si percepiva tutta la pena di un uomo costretto a chinare il capo dopo tre interventi al ginocchio e un ultimo tentativo di rientro spezzato da una sentenza medica: non ce la fai più, devi smettere. «Ma Roger avrebbe continuato a giocare per sempre», nonostante l’età pari a quella di Totti ritirando. Perché ama troppo il tennis, ha spiegato con la solita schiettezza il suo coach Ivan Ljubicic.

Non è un problema di titoli

Non è una questione di titoli in più o in meno rispetto ai rivali, né di soldi, figurarsi: Federer ha contratti in essere per anni, anche dal divano. È che ha vissuto con il tennis e per il tennis, distribuendo arte e ricevendo in contraccambio adorazione sempiterna, lungo 24 anni di cammino da professionista – e almeno un’altra dozzina di preparazione da ragazzino.

Per la gente è il re e le statue non invecchiano, non si rompono menischi, non perdono lo spunto nello scatto né arrancano. C’è il sospetto, però, che la trasfigurazione in icona abbia effetti anche sul trasfigurato e non solo in chi vorrebbe che lui, Lionel Messi (nato nel 1985, prossimo all’addio?), Usain Bolt (fermo a ventinove anni) o Michael Phelps (due ritiri, il secondo e definitivo a trentuno) avessero vent’anni per sempre.

Serena Williams, l’altra megastar del tennis che si è ritirata nel 2022, quella parola – “ritiro” – non ha nemmeno avuto l’ardire di pronunciarla. Ormai non era più in grado di agguantare il primato mondiale del ventiquattresimo Slam – agognato per anni – e ha dovuto fare i conti con il passaporto, recante lo stesso anno di nascita di Federer.

Ma ha fatto capire, già dalla scelta della testata Vogue per l’intervista, di non essere in grado di gestire la realtà nuda e cruda, sicché l’ha avvolta di significati ambivalenti: il prossimo torneo di New York, spiegato in estate, sarebbe stato sì l’ultimo ma soprattutto «il momento in cui ho deciso di muovermi in una direzione diversa, ci sarà una evoluzione».

Nei giorni seguenti ha poi circostanziato meglio i sentimenti di ribellione che covava nell’animo: «Non ho mai voluto dover scegliere tra il tennis e la famiglia e non credo sia giusto. Non fraintendetemi: amo essere donna e ho amato ogni della gravidanza» però, tradotto in soldoni, gli atleti maschi questa incombenza non ce l’hanno e, per loro, la vita sportiva è molto più facile (Federer ha quattro gemelli ma, in effetti, a parte un improbabile infortunio al menisco nel corso di un bagnetto agli eredi non ha mai dovuto sacrificare l’attività a favore dei figli).

Tom Brady

Le è stato fatto l’esempio di una divinità del football e lei lo ha colto al volo: «Se tornerò a giocare come lui? Chi lo sa: di sicuro, Tom Brady ha aperto una splendida strada». Per i non amanti delle discipline Usa, Tom Brady – classe di ferro 1977 – è il leggendario quarterback dei New England Patriots, passato alla franchigia di Tampa Bay nel 2020 e ritiratosi, per sopraggiunti limiti atletici, avendo vinto sette SuperBowl e sbriciolato una marea di primati.

Lo scorso 13 febbraio, dopo ventidue anni da professionista, ha chiamato a raccolta la stampa per annunciare lo stop: «La mia disciplina richiede il massimo tutti i giorni, fisicamente e mentalmente, ho amato accettare la sfida per tutti questi anni ma mi rendo conto che non posso più dedicarmici con tutto me stesso e come i fan meritano. È tempo di occuparmi di altre cose».

Dopo un mese, però, il contrordine. Qualche giorno da ex deve aver scosso a tal punto gli equilibrii di Brady da rimangiarsi l’ordine di cravatte e iscriversi al nuovo campionato, nel quale risulta il più anziano del suo ruolo in tutta la storia della Nfl: «Mi sono reso conto che il mio posto è ancora sul campo e non sugli spalti. Quel tempo arriverà, ma non è adesso». Ma arriverà e non ci sarà sempre una squadra e il suo alone di santità a proteggerlo.

Vite al limite

Del resto, la mezza misura non è parte della vita di un atleta celebre. Sono innumerevoli gli esempi di ex cui è mancata da morire, fin da subito, «quella sensazione unica quando scendi in campo», l’adrenalina della lotta, la tempesta di serotonina dopo un successo. Non c’è nulla che possa rimpiazzare la scossa elettrica di un artista che calca un palco di fronte alla folla adorante e la legittima sensazione di avere tutto il mondo ai propri piedi.

C’è chi ne è stato travolto o ha consumato ogni stilla di energia e di salute per mietere vittorie, come la numero uno del tennis Ash Barty che ha smesso a inizio stagione nonostante i ventisei anni, o il campione del mondo di Brasile 2014 André Schürrle, pensionato prima dei trenta e tramortito dalle scorie di una vita ai duecento all’ora, della quale si parla poco perché al popolo non piace vedere i propri eroi multimilionari mostrare le proprie debolezze: «Non ho più bisogno di prendermi gli applausi. Le ombre si sono fatte sempre più buie e le luci sono poche. Ho maturato questa decisione già da tanto tempo. Tutto ciò che conta è la prestazione in campo, debolezza e vulnerabilità non devono mai esistere. Se le cose non vanno bene, se giochi male, non hai neanche il coraggio di camminare in città».

È brutto invecchiare, è frustrante dover subire la legge dell’appassimento, tecnico o fisico che sia, soprattutto quando ti sembra di essere ancora pronto alla prossima impresa. Come spiegava Andre Agassi, da giovane e allenato hai le gambe forti che obbediscono, da vecchio e fuori forma hai gambe deboli che comandano. E indicano la strada del tunnel verso gli spogliatoi, anche se la testa rimane voltata nella direzione opposta.

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