Donna trovata morta in un cortile a Milano. Senza politiche e fondi femminicidi senza fine

In Francia c’è un prima e un dopo processo Pelicot. In Italia, un prima e un dopo femminicidio di Giulia Cecchettin. Se questi casi hanno contribuito a far luce sulle molteplici forme della violenza maschile sulle donne, cambiato, almeno in parte, la narrazione, portato in piazza migliaia di donne e aiutato a prendere coscienza che si tratta di un fenomeno trasversale – per età, classe e provenienza – i numeri però suggeriscono altro. Che non c’è (ancora) un prima e un dopo, perché la linea dei femminicidi non cala. Nel 2025, secondo i dati dell’Osservatorio di Non una di meno, aggiornati all’8 dicembre, i femminicidi sono stati 81. A questi si aggiungono – poiché le motivazioni possono essere ricondotte alla violenza di genere – tre suicidi indotti di donne, due di ragazzi trans, uno di una persona non binaria e uno di un ragazzo. Almeno 70 tentativi di femminicidio e almeno due figlicidi. Nella quasi totalità dei casi, spiega Non una di meno, «l’assassino era conosciuto dalla persona uccisa». Ci sono poi – fuori dal conteggio – Anna Tagliaferri, imprenditrice di 40 anni, uccisa dal compagno che poi si è suicidato, in provincia di Salerno; Gabriella Botta, 77 anni, un altro caso di omicidio-suicidio del marito, in provincia di Como; fino alla ragazza tra i 25 e i 30 anni trovata oggi, lunedì 29 dicembre, in un cortile di un palazzo a Milano, in una traversa di via Padova, senza maglietta e con lividi sul collo. Potrebbe essere stata vittima di violenza sessuale e poi uccisa, ma – nel momento in cui va in stampa questo giornale – la donna non è ancora stata identificata. Denunce, storie e “contesto”: così si contano i femminicidi Femminicidi I dati del ministero dell’Interno, non più mensili ma trimestrali, non forniscono il numero preciso di femminicidi, nel senso di omicidio – in base al nuovo articolo del codice penale, il 577-bis – come «atto di discriminazione o di odio o dominio in quanto donna», perlopiù per mano di partner, ex partner, amici o familiari. Il Servizio analisi criminale si limita invece a contare gli «omicidi di donna», che non sempre hanno una matrice di genere: da gennaio a settembre 2025 sono stati 73. Quelli commessi «in ambito familiare-affettivo» 60. Le donne uccise da partner o ex partner 44. Dal 17 dicembre 2025 è entrato definitivamente nell’ordinamento il nuovo delitto di femminicidio, punito con l’ergastolo. Per molte esperte è fondamentale che il codice penale, che disegna un sistema sociale maschile, inizi a considerare la donna come soggetto di diritto. Nominare è il primo passo per riconoscere, ma per molte altre non è un’operazione sufficiente. L’azione repressiva e punitiva, unico campo in cui si interviene da anni in materia, non è abbastanza perché interviene quando i fatti sono già accaduti. Invece, come è ormai condiviso, la violenza di genere assume varie forme e il femminicidio costituisce solo l’apice. In mezzo, ci sono maltrattamenti, stalking, minacce, controllo, possesso, molestie, violenza psicologica ed economica. Tasselli che sono espressione della cultura patriarcale che, radicata da millenni, non può essere debellata con l’aumento delle pene o l’introduzione di un nuovo reato, ma occorre – sottolinea la Convenzione di Istanbul del 2011 – un approccio integrato. Combattere il patriarcato è anche una questione di dati Le forme della violenza Almeno una donna su tre (circa 6 milioni e 400mila) in Italia, dai 16 ai 75 anni, ha subito almeno una violenza fisica o sessuale nel corso della vita. È quanto emerge dai dati preliminari pubblicati dall’Istat il 25 novembre. «Nel 2025, il numero di vittime di violenza fisica o sessuale nei cinque anni precedenti l’intervista è sostanzialmente stabile rispetto allo stesso dato rilevato nel 2014», rileva l’istituto. Questo significa che, dopo dieci anni, il fenomeno è rimasto intatto. Anzi, la consapevolezza è cresciuta, segnala l’Istat, così come sono aumentate le richieste arrivate al numero antiviolenza 1522. Secondo gli ultimi dati, relativi al terzo trimestre 2024, le chiamate valide sono state il 37,3 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Lo stalking è tra i motivi che porta le persone a chiedere aiuto e, rispetto al 2023, ha registrato un +97 per cento. «Il 1522 costituisce sempre di più uno strumento utile per rafforzare la rete di protezione a livello locale a supporto delle vittime», ha sottolineato l’Istat. E, infatti, il numero di pubblica utilità è solo uno degli strumenti e delle politiche che possono concorrere a eliminare la violenza di genere. La “cancel culture” della destra: censurato il libro per bambini sull’educazione sessuo-affettiva Il piano antiviolenza Non può essere l’unico. È evidente, per chi lavora nel contrasto alla violenza di genere, che un fenomeno socio-culturale così complesso possa essere combattuto e sradicato solo attraverso la prevenzione e la protezione, con riforme sostenute da fondi strutturali, non – come accade da anni – a costo zero. Su questi pilastri dovrebbe intervenire il “Piano strategico nazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, atteso da due anni e approvato il 16 settembre, per il triennio 2025-2027. Il nuovo piano è stato criticato proprio per l’assenza di quella «efficace cooperazione» richiesta dalla Convenzione di Istanbul: gruppi e associazioni attive nel contrasto alla violenza si sono mobilitate per la «totale assenza di coinvolgimento». Dunque, ritardi, mancanza di trasparenza e di ascolto di chi ogni giorno ha a che fare con il fenomeno. Basti pensare all’emendamento presentato dalle opposizioni e promosso da ActionAid, che mirava a vincolare alla prevenzione primaria il 40 per cento dei fondi del piano e ad aumentare le risorse di 15 milioni, bocciato in commissione a luglio. Violenza sulle donne, dal governo solo reati e riforme a costo zero Prevenzione Anche per il Grevio, il gruppo di esperte indipendenti del Consiglio d’Europa che monitora l’attuazione della Convenzione di Istanbul, «l’insegnamento di materie come l’uguaglianza di genere, i ruoli di genere non stereotipati e la violenza contro le donne rimane disomogeneo e sporadico in tutto il paese», si legge nel primo rapporto tematico nazionale. Non solo l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole – uno degli strumenti di prevenzione primaria richiesto dalla legislazione sovranazionale – è carente nel nostro paese, ma la maggioranza di governo la sta ostacolando: con il ddl Valditara, approvato in prima lettura alla Camera, è stato vietato l’insegnamento alla scuola dell’infanzia e alla primaria, mentre alle medie e alle superiori viene vincolato alla presenza del consenso informato dei genitori minorenni. «Requisiti che non sono in linea con l’articolo 14 della Convenzione», segnala il gruppo di esperte. A suggerire che la formazione non può esaurirsi nell’ambiente familiare, come sostiene il governo, è di nuovo l’Istat che ha rilevato che per il 72 per cento delle vittime che contatta il 1522 lo scenario della violenza è la casa. Anche lo scandalo pubblico – continua il Grevio – della pagina Facebook e del sito pornografico emerso ad agosto 2025 è un esempio della necessità di cambiare mentalità e combattere il sessismo. «Il concetto di stupro basato sulla mancanza di consenso e i pericoli rappresentati dalla pornografia violenta non sono parte integrante del programma di studi obbligatorio», insiste il gruppo nel rapporto, pubblicato qualche giorno dopo il 25 novembre, quando in Senato la maggioranza, trainata dalla Lega, si è tirata indietro sulla norma che propone di introdurre il concetto di consenso nel reato di violenza sessuale. Un punto su cui l’Italia è da anni inadempiente. Le lacune sistemiche che rallentano l’Italia nel contrasto alla violenza sulle donne Protezione Infine, oltre a segnalare la vittimizzazione secondaria nei processi, una continua rappresentazione sessista delle donne nei media e una narrazione che spesso riproduce stereotipi, per le esperte del Grevio ci sono carenze anche nel settore della protezione. Mancano rifugi antiviolenza – che non soddisfano la quota minima di un posto per famiglia ogni 10mila abitanti – e un adeguato finanziamento di questi e dei centri antiviolenza (Cav), che dovrebbero avere degli standard minimi di qualità. In questo modo, ha sottolineato la rete dei Cav D.i.Re, si «eviterebbe l’indirizzamento di fondi verso soggetti improvvisati nell’antiviolenza, che usano un approccio gender-neutral – contrario ai principi della Convenzione – con un grave impatto per le donne che non vedono garantito un sostegno qualificato e specialistico». Un quadro che sembra suggerire, al contrario di quanto sostiene la ministra per la Famiglia Eugenia Roccella, che l’Italia no, non si conferma un modello per gli altri paesi. Il primo centro antiviolenza d’Italia: «Oggi siamo a un momento di svolta»