«Ho cominciato a fare servizio che ero ancora una ragazzina. Nel 1965 per la festa venivano giù in bicicletta, a piedi, col pullman e si faceva la spola per portare le persone avanti e indietro. C’erano talmente tante persone che si bloccava la Via Emilia e tutti avevano un entusiasmo che adesso vedo un po’ essersi perso. Lo facevamo per un ideale e per stare insieme, c’è ancora chi la vive così ma ora, forse, sono meno».

Amelia sta tagliando e schiacciando un’infinita serie di filetti di baccalà che, da lì a qualche ora, cadranno sfrigolando in una delle enormi pentole di questa cucina in costante fermento. Con lei ci sono Maddalena, Nilla e Roberta, una parte dello zoccolo duro di questa brigata con cui mi ritroverò a correre e ondeggiare per preparare i piatti di questa Emilia un po’ nostalgica che ancora anima certe feste dell’Unità.

L’estate qui, del resto, è quella che è, una stagione difficile, umida, sudata, forse speciale, forse insopportabile. È la stagione in cui le feste di partito si moltiplicano nei paesini di provincia come Bibbiano, a due passi da Reggio Emilia. Un po’ scolorite, forse, ma sempre al loro posto, a raccontare e custodire uno degli animi più popolari di questa regione.

«Ho iniziato portando le tessere del Pci e le copie dell’Unità casa per casa. Ci si credeva tanto allora ed è anche per questo che si va avanti. È importante lavorare qui, insegnare ai giovani per darci il cambio, perché non finisca questo modo di ritrovarsi. Noi purtroppo non ci saremo per sempre».

Lui è Lucio, il marito di Amelia, e insieme a Roberto sono i tovarish addetti della frittura. Sulle sue braccia le cicatrici degli oli bollenti di centinaia di feste dell’Unità e del viaggio che, dalla Sardegna, l’ha portato in Emilia a metà anni Sessanta.

Ricordando Berlinguer

Foto AGF

Mentre fumano l’ultima sigaretta prima del servizio raccontano anche loro del passato e delle proprie incertezze sul futuro: «Non so se quei tempi torneranno», dice Roberto, «di sicuro noi siamo qui, dopo cinquant’anni, ancora a impastare e a friggere. Siamo più lenti ma lo spirito cerchiamo di mantenerlo intatto anche se, devo dirtelo, a me manca ancora Berlinguer».

Un secondo dopo Lucio è già dietro la friggitrice e Roberto è impegnato a rimestare e stendere la massa di farina, strutto e lievito da cui magicamente usciranno i pezzi di gnocco fritto. Non c’è tensione nell’aria ma un algido riverbero di movimenti perfettamente oliati, una complicità famigliare che si mescola al fritto e si espande dappertutto.

Ai primi piatti c’è poi Pina, classe 1948, Marizia e Giovanni ai salumi, Tiziana all’erbazzone e, infine, la nuova generazione composta da Federico, il Magico al baccalà, Daniele e Nicolò che completano il plotone del gnocco. Io mi ritrovo attorno al tavolo dell’impasto, spalle alla friggitrice dannatamente bollente.

La danza dello gnocco

Roberto e Amelia tengono un ritmo costante, come se fossero dotati di più braccia e mani, tutte instancabili, tutte preparate: con una allungano la pasta, con le altre tagliano, rifilano e riempiono le spianatoie di pezzi di gnocco dello spessore di pochi millimetri.

«Occhio a non prendere paura», mi avverte Amelia. «A cosa?», le chiedo, con la schiena che già brucia. «Lo capirai quando lo senti», risponde sorridendo. Quello a cui si riferisce è il ciôch, tipica onomatopea emiliana che definisce il rumore di due superfici dure che si scontrano.

In questa cucina, come scoprirò presto, indica il suono secco e improvviso del legno delle spianatoie che, colpendo il bordo metallico della friggitrice, fa saltare i pezzi di gnocco nello strutto bollente, dando il via a una danza vorticosa che li farà gonfiare e dorare.

Lucio me ne passa uno appena cotto. Ci si può approcciare in due modi all’assaggio del gnocco fritto. Puoi schiacciarlo nella pancia e far uscire il vapore, oppure affidarti a uno spirito temerario, ben visto in questa cucina, e darne un morso diretto per poi sentire l’inferno sprigionarsi dentro. Lucio mi guarda e, anche se sono bravo a nascondere l’improvviso calore che mi sta attraversando, ha già capito. Sorridendo mi chiede: «Caldo, eh?».

In poco tempo la cucina è già a pieno regime. Alla catena del gnocco lavoriamo senza sosta, il Magico immerge uno dopo l’altro i filetti di baccalà prima nella colla, la tradizionale pastella che custodirà il pesce sotto uno spesso strato di acqua, farina e spezie, e poi nella pentola. I primi vengono inondati di soffritto, salsa di lardo, cipolle e pomodoro, e serviti al momento.

I pezzi che avevamo accumulato finiscono velocemente ed è un continuo muoversi fra impasti, tagli e ciocchi che annunciano la necessità di accelerare. In poco meno di tre ore escono più di mille pezzi fra gnocco, erbazzone e gnocchelle, quaranta primi e indefinibili quantità di salumi e torte di riso.

Il cibo come politica

Foto AGF

Sono questi i carburanti che alimentano la festa, che riuniscono le famiglie e gli amici attorno ai tavoli e accompagnano le polke, i valzer e le mazurke nell’arena del liscio, dove più di trecento persone stanno roteando e muovendo i piedi per creare una cartolina d’altri tempi. Saranno loro, e non i più giovani, a ritornare affamati al nostro ristorante quando siamo già in fase di pulizia, per un ultimo frittino prima di andare a dormire. Sono, in fondo, le ultime immagini di queste feste. 

Se il cibo può essere considerato uno dei mezzi più naturali con cui fare politica, il suo sapore qui incrocia la strada con le tradizioni, con il senso di comunità e le storie dei volontari, passando anche attraverso questo pezzo di pasta unto e corposo che, come in una parabola, nasce dallo strutto (dell’impasto) e torna allo strutto (nella friggitrice).

Me ne accorgo parlando con Maddalena, anche lei oltre i cinquant’anni ininterrotti di servizio. Per lei le feste rappresentavano le prime occasioni per uscire alla sera: «Se penso a quelle prime feste, si parla sicuramente di un altro mondo, di uno spirito diverso, in cui al centro c’erano dei messaggi politici chiari. Ora magari viene un pubblico più disomogeneo ma continuiamo a credere sia importante essere qui», dice.

«Vedi, le Feste dell’Unità sono un po’ come il gnocco fritto che è sempre stato un cibo povero. Sono nate per essere alla portata della comunità, per farla riunire. Magari le persone vengono qui perché al ristorante non possono andarci, perché non sono andati in vacanza o sono semplicemente soli. C’è posto per tutti ed è anche per questo che ha senso continuare a impegnarsi, anche se di politica forse è meglio non parlarne».

I suoi occhi si illuminano mentre con precisione chirurgica Nilla incide in obliquo l’enorme teglia di torta di riso: «Qui, più che altrove, la torta di riso è speciale», conclude Maddalena, guardandomi assaggiare questa torta povera, nata nelle cucine delle mondine e carica di zucchero e sassolino, «perché è la torta di tutti».

La fine della festa

Si può trovare una lettura malinconica in questi gesti, nelle occhiate dei più anziani che vanno alla ricerca di qualcuno che non c’è più. Per qualcuno la politica è diventata altro e forse non è nemmeno il motivo principale per cui continuano a ritrovarsi e passare il proprio tempo a lavorare senza sosta in questa cucina.

Per i più giovani, come Federico, vicesegretario della sezione del Pd di Cavriago, ne vale la pena: «Te ne accorgi solo quando le feste non ci sono più. Sono momenti di aggregazione che hanno valore, per coinvolgere gli iscritti e la comunità, per creare uno spazio di confronto e di discussione che, altrove, potrebbe non esserci più» e che, quando ci si ritrova a tavola alla fine del servizio, probabilmente, ha un gusto ancora diverso.

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